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Moving On - Concorso

Pubblicato il 25 novembre 2020 da Matteo Galli

VOTO:

Moving On - Concorso

Fin da quando è stato presentato al Festival di Busan nell’ottobre del 2019 (e da lì anche a Rotterdam e a San Sebastián) la critica ha tributato molti elogi al film di esordio della trentenne Dan-bi-Yoon e nessuno ha omesso di statuire un giusto paragone con le opere familiari di Hirokazu Kore’eda. Sono elogi meritati per un film capace di fare molto con (apparentemente) poco, se pensiamo che Moving On (titolo internazionale) ruota a un numero ristrettissimo di personaggi, si avvale di una pressoché totale unità di luogo e si affida a impercettibili variazioni nella recitazione volte a comunicare le emozioni di personaggi.

Le figure sono in tutto cinque distribuite su tre generazioni: due ragazzini, un delizioso maschietto Dongju che avrà otto-nove anni e la sorella più ombrosa che ne avrà quindici o sedici che si chiama Okju, insieme a loro il padre che all’inizio del film lascia la casa, stipando un intero furgoncino di tantissima roba, portandosi dietro i figli, approfittando dell’estate e delle vacanze scolastiche per trasferirsi dal proprio padre, il nonno, dunque, un vecchietto piuttosto male in arnese ormai, silenzioso, che cammina male costantemente assopito; poi, dopo un po’, arriva la sorella del padre, la zia dunque.

Una costellazione famigliare piena di traumi– lo scopriremo strada facendo – che in altre mani avrebbe potuto dar vita a un brutto film televisivo pieno di tante chiacchiere diviene qui un capolavoro di laconismo, con solo pochi momenti autenticamente drammatici. Quali traumi? Il padre, con tutta evidenza, è stato lasciato dalla moglie e tira a campare con lavoretti non particolarmente redditizi, sognando un improbabile esame (da ingegnere?), rispondendo a dei quiz complicatissimi, per fare il salto di qualità, al punto che il trasferimento dal nonno è il modo per risparmiare l’affitto (ma quel furgoncino così stracolmo non poteva che insospettire); Okju, la figlia, la cui prospettiva è forse all’interno del film quella privilegiata (Dan-bi-Yoon non ha nascosto le radici autobiografiche del film) è sofferente e risentita per la perdita della relazione con la madre e, al contempo, flirta più o meno invano con un coetaneo che però è un rammollito del tutto inaffidabile e passivo; la zia s’installa a casa del padre pour cause, anche lei è a un passo dal divorzio; il nonno, poverino, si aggira per casa, non si capisce fino a che punto si renda conto che il suo appartamento è diventato un luogo di raccolta di individui che di fatto si sono incagliati in un’esistenza fallita, anche se poi in un paio di scene appare più lucido di quanto non sembrasse.

Forse l’unico personaggio un po’ più sereno è Dongju, troppo bambino ancora forse per capire tutto ciò che sta succedendo intorno a lui, a lui in fondo interessano ancora i Pokemon, qualche vestitino nuovo e il primo smartphone, per ottenere il quale si dichiara sempre disposto a ballare facendo divertire tutti gli altri nel corso di una delle innumerevoli scene a tavola che si susseguono nel film, volte quasi sempre a nascondere dietro un’apparente normalità l’imbarazzo e il disagio. Ma poi sul finire del film i personaggi riescono, entro certi limiti, a verbalizzare i loro disagi e le loro incertezze, a lasciarsi andare alle emozioni, il film si conclude con diverse persone che finalmente riescono a piangere, seppur con grande dignità. Anche perché verso la fine del film succede proprio quello che lo spettatore quasi fin da subito si immagina, date le condizioni in cui versa il nonno. Che cosa rende questa vicenda apparentemente così banale e così ordinaria un film notevole? Beh, da un lato la sceneggiatura che, pur ruotando intorno a pochi personaggi e muovendosi all’interno di un ambiente ristretto, riesce a lavorare di variazioni impercettibili ma significative (anche nella recitazione, come già si diceva, sono tutti bravissimi gli attori e le attrici), dall’altro, lo stile, uno stile maturo, in cui la macchina da presa si tiene a dovuta distanza dai personaggi asseverando il loro riserbo - e non di rado la prospettiva ricorda quello di un altro non secondario regista giapponese ovvero – si parva licet - Yasujirō Ozu.

E poi da questo film lo spettatore occidentale, se non lo sapesse già, apprende che le ragazzine coreane che desiderano sembrare più belle sarebbero disposte a spendere 700 dollari per rifarsi non certo il naso come le loro coetanee occidentali, ma gli occhi.

Nam-mae-wui yeo-reum-bam - Regia e sceneggiatura: Dan-bi-Yoon; fotografia: Ji- hyeon-Kim; montaggio: Chang-Jae-Won; interpreti: Choi Jung-un, Kim Sang-dong, Park Hyeon-yeong, Park Seung-jun, Yang Heung-ju; produzione: Graduate School of Cinematic Content, Onu Film, Tiger Cinema; origine: Corea del Sud 2019; durata: 105’.


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