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My America - Fuori concorso/Documentari

Pubblicato il 24 novembre 2020 da Francesca Pistocchi

VOTO:

My America - Fuori concorso/Documentari

“Noi, popolo degli Stati Uniti, allo scopo di perfezionare ulteriormente la nostra unione, di garantire la giustizia, di assicurare la tranquillità all’interno, di provvedere alla comune difesa, di promuovere il benessere generale e di salvaguardare per noi stessi e per i nostri posteri il dono della libertà, decretiamo e stabiliamo questa Costituzione” -sull’eco di queste parole, la regista e documentarista d’esperienza Barbara Cupisti sbarca nel Nuovo Mondo. Fin dalle prime inquadrature, l’accento viene posto su tutto ciò che della Nazione più ricca del mondo (assioma che sarebbe tuttavia da verificare!) proprio non va: traffico d’armi legalizzato, violenza, ghettizzazione, razzismo, classismo, isolazionismo, povertà, e così via. Tutto vero, tutto insopportabilmente giusto – almeno per un europeo.

My America si divide in tre capitoli, ognuno dei quali ha l’arduo compito di illuminare i lati oscuri dell’utopia americana che ancora oggi colonizza il pensiero occidentale. La cinepresa viaggia fra Washington e Los Angeles, spingendosi fino ai margini del deserto che separa gli Stati Uniti dal Messico. Vediamo studenti universitari e ragazzi abbandonati impegnarsi per lo stesso scopo, vediamo giovani missionari prestare ausilio ai senzatetto, vediamo alcuni volontari donare ai migranti quell’assistenza e quel supporto che dalle autorità ufficiali non giungerà mai. Ancora una volta, tutto vero, tutto insopportabilmente giusto – eppure quanto sarebbe stato più interessante, per un istante soltanto, dirigere la propria attenzione dalle vittime ai presunti carnefici: la pellicola manca di equilibrio e si limita a denunciare apertamente le tragiche problematiche di una realtà che, in fondo, rimane sconosciuta (specialmente a noi, protetti fra i materni cunicoli del Vecchio Continente). Nella foga con cui la regista ci indica i mostri nascosti dietro al grande sogno, molte domande sono destinate a rimanere senza risposta e il concetto di libertà tipicamente americano finisce per essere condannato senza possibilità di replica.

Interessante, in tal senso, l’intervista fatta ad un Homeless fra gli accampamenti che circondano la vecchia e sfavillante Hollywood: si parla di felicità, di possibilità, di ipotesi ancora da realizzare, di religione. Si parla di un’esistenza priva di qualsiasi garanzia che possa definirsi tale, si parla di una quotidianità sospesa fra innumerevoli opzioni temporanee, si parla dell’uomo in termini quasi evanescenti. Non c’è paracadute in grado di attutire la caduta, ma soltanto una china sulla quale ci si arrampica cercando di scivolare il meno possibile. Il vertiginoso pendio sociale che separa, a pochi isolati di distanza, chi ha tutto da chi invece non possiede nulla è necessario per permettere all’uomo di osservare la vita dall’alto – ammesso e non concesso ch’egli sia in grado di giungere in cima. Ognuno è solo con il proprio percorso, ognuno è affidato a sé stesso, ognuno deve ergersi a tutore di un destino individuale e al contempo condiviso.

La libertà americana fa paura, poiché si regge su una solitudine così viscerale e primitiva da risultare spaventosa agli occhi e alle orecchie di qualsiasi inurbato abitante del nostro continente. Ma Barbara Cupisti appare troppo impegnata a denunciare l’ingiustificabile per rendersene conto, e così il film cade nel tradizionale errore di valutazione europeo. Sarebbe giusto, ogni tanto, sbirciare dal buco della serratura e fotografare le leggi che regolano la fisionomia di chi si nasconde dietro alla porta, affrontando magari il rischio di rimanere atterriti o di non farci comprendere (eppure, spiare dall’altra parte non significherebbe affatto giustificare l’ingiustificabile). Basta un poco di onestà intellettuale per ammettere che, di fronte alla selvaggia brutalità dell’American Dream, all’improvviso semplicemente capiamo per quale motivo negli Stati Uniti sia così importante possedere un’arma. Ed è da qui che dovremmo partire, se volessimo veramente cambiare qualcosa.


CAST & CREDITS

My America - Regia e sceneggiatura: Barbara Cupisti; fotografia: Antonello Sarao; montaggio: Francesca Mor; produzione: Clipper Media, Rai Cinema; origine: Italia 2020; durata: 96’.


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