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Native Dancer al Gaeta Jazz Festival

Pubblicato il 13 agosto 2015 da Alessandro Izzi


Native Dancer al Gaeta Jazz Festival

Intrigante la musica dei Native dancer che da Londra sbarcano a Gaeta, nel pieno del Festival Jazz nato grazie alla collaborazione tra Armonia International Foundation of Arts di Roberto Sasso, l’Amministrazione comunale e il Comando della Scuola Nautica della Guardia di Finanza di Gaeta.
Ed è da ammettere che la piazza d’armi del castello aragonese, appositamente aperta al pubblico, è per certi aspetti la cornice ideale per una musica, come la loro, sfuggente ad ogni facile definizione e capace di stare perfettamente all’incrocio tra stili e modi d’espressione diversi.

Un po’ trip-hop per l’uso di campionature elettroniche e per il tono spesso declamatorio di alcuni testi, un po’ soul, soprattutto nel calore delicato della voce di Frida Touray che si stende su bassi scuri, ma mai veramente cupi, un po’ jazz e un po’ funk, il concerto sembra seguire una dimensione incantatoria, fondata su ritmi lenti intessuti di mille suggestioni.
In Love, ad esempio, la melodia simile a nenia che si rinnova continuamente in una ripetizione discreta ha il sapore di una ballad che per certi aspetti riporta alla mente la Bjork del periodo trip e per altri sembra seguire le suggestioni di un rock psichedelico che riannoda radici con la migliore tradizione inglese.
Qui, in particolare, l’uso del pianoforte di Sam Crowe a sostegno della voce conferisce a intere sezioni del brano un gusto arcaico di grande suggestione che traduce efficacemente in termini musicali l’invocazione allo schiudersi dell’amore suggerito dal testo.
Successivamente, quando la voce tace, il solo pianoforte si carica del peso di tenere aperta la ripetizione della breve cellula melodica ed è sul suo timbro che vanno a costruirsi cangianti paesaggi sonori che disegnano davvero il senso di una primavera che esplode in mezzo al persistente ricordo di un inverno che solo lentamente dirada.

Durante l’intero concerto i Native Dancer confermano, quindi (anche nella scelta di brani non originali abilmente adattati ai timbri e ai colori della loro formazione), la propensione per una musica profondamente atmosferica in cui ogni suggestione funky se ne sta discreta nelle linee del basso mentre le ornamentazioni fioriscono libere nello spazio dell’esecuzione impreziosendo il sound complessivo di tante piccole gemme sonore spesso genuinamente emozionanti.

Al di là delle molte suggestioni e reminiscenze del passato, la musica dei Native dancer cerca comunque un fortissimo punto di contatto con il nostro presente intessuto di social media e di solipsismo. E lo fa non solo quando campiona voci che restituiscono il senso di un contesto votato alla spersonalizzazione e alla disumanizzazione.
A questo mondo sempre più suburbano e indifferente i ragazzi di questa band oppongono il senso di una musica che chiede di essere accompagnata dal proprio ascoltatore, quasi ballata, comunque condivisa come un brindisi costantemente rinnovato alla vita e al miracolo delicato e piccolo del semplice stare insieme.

Notevole il risultato d’ensemble con Jonathan Harvey al basso, Nathaniel Keen alla chitarra e Joshua Blackmore alla batteria.
Certo la musica dei Native dancer deve probabilmente crescere ancora, ma si ritaglia una bella posizione nel panorama internazionale e promette davvero molto bene per il prossimo futuro.


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