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Non Contate su di noi

Pubblicato il 10 ottobre 2006 da Edoardo Zaccagnini


Non Contate su di noi

Un ragazzo ha scritto un libro straordinario. Pieno di dolore di rabbia di rassegnazione. Un romanzo di terra. Di asfalto, di cemento, di scatole giganti poggiate su pianura strappata alla campagna. Di buste, fazzoletti usati, carne abitante, da macello o da manovalanza. Il romanzo di un medioevo moderno, da sud avanzato, di castelli dietro la siepe difesi dagli stipendi sicuri di una massa abbandonata da sempre a un patrigno intransigente. Un reportage meticoloso di economia e di cultura. Un libro che parla di camorra al presente, di un sistema radicato nella fetta di Italia che il mare sporco di un golfo incantevole guarda allungarsi fino alle città limitrofi. Perfettamente assoggettate. Un racconto di signori della droga, delle merci e della gente. E di signori della sofferenza, dell’impotenza, dell’inconscenza collettiva. Roberto Saviano, anni 27, ha scritto Gomorra. Lo ha fatto crescendo dentro l’inferno invisibile al viaggiatore distratto, guardando i bambini imparare il sistema, correndo, per giustificabile ossessione, sui luoghi dei delitti. Lasciandosi sfasciare dal sangue e dagli sguardi, filtrando il sentimento primario in altri da utilizzare in funzione personale e collettiva. Ha mangiato, dormito e parlato dentro la cosa che ha messo in pagine. Ha portato dati, testimonianze e sentimenti. Ha fatto un regalo alla sua terra disgraziata ed uno alla giovane letteratura italiana. Gomorra ci dice un sacco di cose. Anche che l’eroina, oggi, si concilia malissimo col mondo degli affari malavitosi. Perchè provoca morte, polizia, media e stato. Tutta roba che fa male all’economia. Meglio la coca nei giri privati dei medici e degli avvocati. Dei commercialisti e degli informatici a contratto a progetto. Meglio se buona, perchè più richiesta e costosa. I tossici che a Secondigliano, Scampia, Terzo Mondo chiamano visitors, servono solo ad assaggiare e morire in silenzio, perfezionando il taglio, la qualità e il mercato. Non è con la morte vistosa, ma con un sistema di organizzazione economica saldissima e strozzante, che la camorra contemporanea regna su tutta una regione. Invece, vent’anni fa o giù di lì, la droga era l’eroina. Questa malattia generazionale di zombie sudati, di magrezze penzolanti in camicia sbottonata, di deboli suoni soffiati a fatica. Di spauracchio per bambini e signore con la spesa. Un decennio di scippi metropolitani e morti nel parchetto. Di ragazzi insegnati colpevoli da genitori premurosi di altri ragazzi più fortunati. Di bucatini, fattoni, drogati, malati, deboli, morti ben prima della fatidica overdose. L’eroina è passata nelle periferie italiane tagliando generazioni con i capelli ancora lunghi, lacerando famiglie e fornendo allo stato la via d’uscita da un esplosione emotiva e politica collettiva. Poi la polvere chiara è lentamente sparita nelle televisioni della felicità ammirabile e augurabile, forse perchè lo Stato ragiona come quel sistema ignobile che la gente comune chiama camorra, o mafia in generale. Fatto sta che l’eroina è una forma del decennio popolare settanta-ottanta. Un modus-morendi a cielo aperto.

Chi non ha vissuto quei decenni e quelle periferie, non ha conosciuto l’eroina se non attraverso una ricerca razionale e quel piccolo capolavoro che è Amore Tossico ha fornito una una carta d’accesso a quel mondo tragico, con un pizzico di comicità. Amore tossico è un incredibile docu-fiction sul mondo dei tossicodipendenti romani. Un film di rara precisione nel dettaglio che è diventato senza fatica un cult, un film mitico per la generazione che lo ha vissuto in diretta. Era Ostia e Cesaretto e i suoi amici raccontavano senza estetismi esportabili, la misera e violenta quotidianità di chi si buca, si fa. Si allargava il loro corpo con uno slang perfetto ed autentico; una tenerezza ed una spiegazione arrivavano profondamente ad uno spettatore attonito e disarmato. La "rota" era sostenuta da scippi e bugie, limoni e "spade", amori disperati che soccombevano sotto l’impossibilità di una descrizione sentimentale e sotto la spinta travolgente dell’infame bisogno di robba. Un documento scarno ed eccitante, ritmato ad anni ottanta, feroce e dolce come un canto tragico. Cesare moriva sotto la tomba di Pasolini, dietro ad una solitudine, una povertà ed una sofferenza dignitose che aveva comunicato interamente a chi aveva faticato (per nulla) a mettersi a sua spettatoriale disposizione. Amore tossico rendeva degna la schifezza di quei ragazzi e li scagionava dalla condanna borghese di chi non ne aveva mai potuto conoscere una mezz’ora, non dico di più.
Il fatto, però, che Amore tossico sia considerato l’unica esperienza cinematografica italiana a contrapporsi all’estetica registica di Lo zoo di Berlino e Trainspotting, è una bugia critica forse giustificabile. Un tale Sergio Nuti, infatti, una manciata di anni prima del bravissimo Caligari, in pieno decennio settanta, aveva scritto, girato ed interpretato un’altrettanto povera e sincera opera prima sull’universo dei drogati romani. L’anno era il settantotto e il quartiere adibito a location era la mitica periferia di Primavalle: quella del vespino rosso bordeaux che de terza me fa na piotta e de quarta nun ce lo so. Il film di Nuti si intitola Non contate su di noi e vinse il Nastro d’Argento come miglior opera prima. Fa tristemente parte dell’invisibile cinema italiano, recuperato da robivecchi appassionati dentro la cineteca nazionale e mostrato, per una sola notte, dalla vigile e cinefila Sala Trevi-Sordi di Roma. La pellicola parla di un amore ovviamente tossico tra una ragazza pasoliniana ed un alienato borghese abitante nell’adiacente e lontanissimo quartiere di Balduina. Tra loro si impone e frappone il mostro polveroso e chiaro che si squaglia nel cucchiaino e che si inietta in ogni punto del corpo in cui scorra del sangue. I due giovani, e con loro una generazione proletaria di vespette e baretti estivi, sprofondano all’inferno giorno dopo giorno, sole dopo sole, dolore dopo dolore, semplicità dopo semplicità, ingenuità dopo ignoranza, gioventù dopo non famiglia. Fino al carcere e all’addio di chi è straordinariamente forte e prova a venire fuori dal cosiddetto tunnel. Il film è più melo di Amore tossico che per questo è più documentale e in un certo senso meno doloroso. E’ un’opera più originale e compatta ma i due film insieme esprimono un tema delicato e sempre poco affrontato in una maniera complessa. Parlare dell’eroina significa necessariamente toccare un discorso individuale ed uno politico che soltanto con accurate ed accorte testimonianze può venire educatamente ed efficacemente effettuato. Qui si vuole soltanto segnalare un invisibile e nascosto film sull’argomento. Un piccolo pezzetto di cinema italiano venuto su spontaneamente e con motivazione personale. Vederlo non sarà facile per chi ha avuto la pazienza di leggere questo pezzo sino in fondo. Credo, tuttavia, che non in pochi abbiano la voglia di farlo. Perchè certi dolori e certe storie producono strani meccanismi di attrazione dentro le persone. Arrivare vicino alla morte, come l’eroina garantisce, e venirne fuori a proiezione terminata, con uno strano senso di sociale dispiacere, rende il film particolarmente interessante. Agli interessati l’ardua ricerca.


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