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Kes, il gheppio proletario di Ken Loach

Pubblicato il 18 aprile 2020 da Monia Manzo


Kes, il gheppio proletario di Ken Loach

Ottavo appuntamento con la rubrica #iorestoacasaecritico: è ora la volta di Kes, di Ken Loach. La firma che ci accompagna nel viaggio è quella di Monia Manzo.

Tratto dal romanzo A Kestrel for a Knave di Barry Hines, Kes (1969), piccolo gioiello della prima produzione del più impegnato dei registi inglesi, Ken Loach, è una full immersion nella vita dei minatori inglesi, una delle più vessate tra quelle operaie.

Non possiamo paragonarli ai protagonisti descritti nel capolavoro di Lawrence Sons and Lovers, perché la vita sociale già imitava quella della Middle class, tra musica brit-pop, pub e abiti sessantottini. Peccato che non fosse così anche per il piccolo Billy, giovanissimo ma già emblema evidente del tipico outsider, proprio perché delicato, spontaneo, puro, privo delle influenze nefaste degli adulti della sua società.

Il ragazzo risulta essere così un facile bersaglio di più personaggi che potremmo definire rivoltanti; dal direttore-dittatore, l’insegnante di ginnastica, che concentra tutta l’attività sportiva su una partita di calcio, all’insegna del bullismo più acceso e per concludere ad un fratellastro frustrato e disadattato, incline alla violenza: tutti rappresentano dei carnefici per l’indifesa vittima.

Billy, un bambino dall’infinita dolcezza, un viso celestiale, una figura francescana, un esile corpo coperto, abiti sudici e troppo grandi, un personaggio che forse sarebbe stato perfetto per un film in costume dell’800’, dove avrebbe potuto interpretare senza problemi un piccolo nobile, mentre in questo film Loach lo sceglie consapevolmente per creare una distonia iperrealista.

Tra tutte le brutture della vita, Billy riesce a trovare l’ebrezza della felicità più profonda, quando trova un falchetto e cerca di addestrarlo, ne è affascinato, ruba in un negozio un libro sulla “Falconeria” e comincia immediatamente a studiarlo.

È un mondo parallelo quello del bambino e del falco, tra loro si crea una magica sintonia, di due solitudini speciali che si incontrano, rese vivissime attraverso delle immagini molto suggestive, girate un un bosco a ridosso della periferia inglese.

Ken Loach non è ancora quello per esempio di Paul, Mick e gli altri (2001) o di tantissimi altri suoi film, l’impegno sociale affiora, seppur è in questo caso affiancato da forti descrizioni dell’emotività dei personaggi che sono esattamente lo specchio di un’Inghilterra nel pieno sviluppo capitalistico, pre-tatcheriano.

Kes, il falco, simbolo per antonomasia della tradizione medievale, rappresenta l’anima inglese, l’ansia di libertà mai veramente sopita, soprattutto nella classe operaia, o almeno è quello che spererebbe Loach pensando al suo popolo, con cui ha sempre solidarizzato sperando che i suoi film potessero essere uno sprone all’emancipazione delle classi proletarie, nel supportarle in un processo di evoluzione e liberazione.


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