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Nuovo Cinema Paralitico - Fuori concorso/Film Commission

Pubblicato il 1 dicembre 2020 da Francesca Pistocchi

VOTO:

Nuovo Cinema Paralitico - Fuori concorso/Film Commission

Ripercorrendo il Leitmotiv visivo già messo in scena da Fabio Donatini in San Donato Beach (http://www.close-up.it/san-donato-b...), lo sguardo di Davide Ferrario vaga tramite un mosaico di centinaia di piccoli corti filmati fra le macerie di un’Italia provinciale e desolata (le città sono state escluse), soffermandosi provocatoriamente sulle rovine di un tempo senza tempo: tracciando le fila di un nuovo cinema dai contorni sfocati, lo scrittore e poeta Franco Arminio s’aggira come un fantasma per l’Italia dei margini, l’Italia “non riuscita, dell’ultimo banco”, qui vivificata attraverso la lirica.

La cinepresa indugia nel vuoto che s’espande fra il triste Reality Show odierno e la Casa del mondo di un tempo, tracciando una linea di confine – forse a tratti un po’ ridondante – fra passato e futuro, fra la cosiddetta civiltà e la realtà rurale del mondo che fu. L’epopea del cantastorie si divide in numerosi capitoli, paragrafi e sotto-paragrafi, che a loro volta si disperdono in una serie di affluenti in grado di trasportare l’osservatore fra le lande desolate e solitarie di un Paese in fondo abbandonato a se stesso. Lo sguardo del regista, ironicamente accompagnato tanto dai versi del poeta Giorgio Caproni quanto da quelli di Nicola di Bari, riallaccia i legami che riuniscono arte e vita, mappando una vera e propria geografia dell’isolamento odierno. L’obbiettivo immortala i volti spenti di fronte ad un concerto, sulle rive del Mediterraneo o immersi nell’ombra di polverose biblioteche: il ritmo lento del doc. ne sottolinea l’apatica indolenza, smorzata talvolta dal cinico sarcasmo con cui Franco Arminio getta al vento i suoi racconti facendo finta di prendersi in giro. L’effetto è vagamente fastidioso, in quanto non sembra mai davvero intenzionato a mettersi in gioco, ma si limita piuttosto a glossare le belle inquadrature, ponendosi come irritante intermediario fra noi e il paesaggio.

Nella paralisi contemporanea, nessuno sembra essere disposto a fermarsi e a rincorrere i propri spettri, preferendo inseguire una realtà in fondo inesistente e importata da chissà dove: così l’universo scintillante dei media ufficiali si scontra con quello dialettale e suburbano di una zona franca ormai visibile soltanto al cinema. Ci si chiede, tuttavia, se l’occhio un po’ estetizzante di Davide Ferrario sia effettivamente in grado di carpire l’essenza di un mondo solo in apparenza estraneo all’idioma originario, o se invece non si preferisca tracciare un bell’acquarello ad uso e consumo dello schermo. L’incessante e inquieto peregrinare dello scrittore, qui nelle vesti forse un po’ troppo magniloquenti di un moderno e disilluso Flâneur, si smarrisce nelle rotonde trafficate in cui le vite si dipanano senza cercare una via d’uscita dalle proprie invisibili prigioni. Eppure, l’impressione sprigionatasi dall’esperimento del regista è quella di assistere ad un’opera di ricostruzione basata su un immaginario in gran parte artificiale, autoreferenziale e decisamente concettoso: ogni rudere, ogni angolo di confine viene adattato ai canoni visivi di una platea che probabilmente dalla periferia non è mai passata – nemmeno per sbaglio. Le due realtà paiono destinate a rimanere scisse, nonostante i numerosi tentativi di ricongiungimento: perfino il vernacolo, così saporitamente gustato dai suoi ultimi discepoli, tende a perdersi nelle costellazioni perfettamente congegnate di un’Italia più da cartolina che non da commedia umana.

Ferrario traduce in termini documentaristici la malinconica delicatezza con cui Jim Jarmusch, nel 2016, dipinge la sua personalissima Paterson, insospettabile patria del verso americano. La distanza che – purtroppo a svantaggio del regista italiano – separa i due progetti è tutta racchiusa nella diversa messa in scena del concetto di emarginazione: nel primo caso, si parla di un carcere volontario da cui nessuno ha davvero intenzione di fuggire, nel secondo caso l’esclusione del poeta non è mai assoluta, ma si riduce ad una materna chimera. E, in effetti, ciò che manca a Franco Arminio è la sofferta empatia con cui Adam Driver, nei panni di un semplice autista, fotografa un’esistenza reale, concreta, tangibile: per penetrare nella vita, forse la lirica dovrebbe riacquisire i contatti con il disagio da cui essa scaturisce.


CAST & CREDITS

San Donato Beach - Regia: Davide Ferrario; sceneggiatura: Franco Arminio; fotografia: Andrea Zambelli, Andrea Zanoli; montaggio: Davide Ferrario, Cristina Sardo; interpreti: Franco Arminio; produzione: Rossofuoco, Rai Cinema, Piemonte Doc Film Fund; origine: Italia 2020; durata: 86’.


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