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Nuovo Cinema Pigneto - il quartiere simbolo del neorealismo tra set storici e produzioni indipendenti

Pubblicato il 7 giugno 2009 da Fabiana Proietti


Nuovo Cinema Pigneto - il quartiere simbolo del neorealismo tra set storici e produzioni indipendenti

Roma, così come Parigi o New York, è sempre stata un grande set a cielo aperto. Dal mercato di Campo de’ Fiori ai piazzali dell’Eur la città è stata consegnata in largo e lungo allo sguardo immortale della macchina da presa.
Il quartiere Pigneto – che si snoda lungo la via omonima, appena oltre le mura di Porta Maggiore, contenuto tra le due grandi arterie di via Prenestina e di via Casilina – non ha certo la stessa potenza evocativa della Fontana di Trevi in cui Anita Ekberg si tuffava davanti all’estasiato Mastroianni, ma, forse suo malgrado, ha ospitato tra le sue vie grandi pagine di storia del cinema italiano. Momenti irripetibili, in cui la scelta del quartiere come set non era dettata da logiche modaiole ma intimamente legata al cuore del racconto, come accaduto per il Rossellini di Roma città aperta, il Germi de Il ferroviere, e – soprattutto – il Pasolini di Accattone.
La chiesa di Sant’Elena su via Casilina, la circonvallazione casilina, teatro delle passeggiate di Anna Magnani e Aldo Fabrizi, o via Montecuccoli dove la donna corre per l’ultima volta dietro il carro dei tedeschi, sono scenari entrati a far parte dell’immaginario del miglior cinema italiano, così come le baracche di Accattone, dove il paesaggio dell’allora borgata si fondeva con la qualità mitica del discorso pasoliniano, o dove gli enormi cortili dei popolari condomini del Bellissima di Luchino Visconti fornivano il prosaico controcanto al sogno hollywoodiano della popolana Magnani.

Oggi molti dei nuovi habitué radical chic che affollano il Pigneto si fregiano di aneddoti su Accattone e il suo autore, magari per millantarvi delle location mai esistite (come il Bar Necci, che non è affatto il bar dove Accattone e i suoi amici si ritrovavano, ma tutt’al più la privilegiata postazione di Pasolini da cui poter osservare i suoi ragazzi di vita), al solo scopo di fare qualche coperto in più durante l’happy hour.
Il Pigneto è infatti ormai diviso tra due anime: una che gli deriva dal suo passato di zona periferica e popolare, l’altra – più recente – di matrice "bobo", come direbbero i francesi, bohémien-bourgeois, in virtù della quale il quartiere viene preso d’assalto dal sottobosco dello spettacolo e dagli investitori sciacalli che, come già avvenuto in quartieri centrali come Trastevere e Testaccio, fanno salire i prezzi degli immobili costringendo i vecchi residenti a spostarsi più in là e a fare largo alla gioventù cool.

L’aspetto cinematografico non è affatto indenne da questi cambiamenti. Sono pochi infatti i film, i documentari o le fiction che riescono a cogliere l’effettivo spaesamento e la progressiva perdita d’identità vissuta dal territorio, per quanto il Pigneto continui a riempire la profondità di campo di numerosi lavori audiovisivi.
Ciò che ne deriva è spesso un uso anacronistico delle location, come se il Pigneto potesse ancora rappresentare quel milieu popolare e incontaminato da logiche capitalistiche così fermamente ricercato da Pasolini ai fini della sua poetica: è ovviamente una scelta dettata da un’ignoranza sociologica e urbanistica che, senza probabilmente tener conto dell’espansione di Roma negli ultimi decenni, continua a raccontare la periferia attraverso zone ormai semi centrali, popolate per lo più da una piccola e media borghesia che certo non si presta a rappresentare il ceto sottoproletario fotografato da Pasolini all’inizio degli anni Sessanta.
Nella trappola è caduta anche Francesca Archibugi, probabilmente la più sensibile interprete del cinema italiano sulle turbolenze emotive dell’adolescenza, che nel suo ultimo film, Questione di cuore, si avvale del quartiere come una sorta di corrispettivo topografico del carrozziere interpretato da Kim Rossi Stuart (sempre fuori parte e poco credibile nei panni di personaggi del popolo) al pari della scelta inspiegabile della Garbatella come pericolosa zona di conflitti a fuoco nello sgangherato Cemento armato, poi utilizzata, paradossalmente – come “città giardino” nella fiction I Cesaroni.

Eppure il villino della famiglia attualmente più nota d’Italia è proprio nel cuore del Pigneto, che con la Garbatella (forse sopravissuta nella fantasia di Brizzi&Martani come la tentacolare “Garbante” pasoliniana di Una vita violenta) condivide il medesimo passaggio da quartiere popolare a meta ambita dai gruppi immobiliari, in virtù del carattere “rustico” che tanto piace ai nuovi ricchi.
La fiction italiana ha in generale preso d’assalto il quartiere, allestendovi location fisse – il caso appunto del villino “cesaroniano” e dell’abitazione di Michele Venitucci sul tratto di via Prenestina adiacente al deposito dei tram nella terribile fiction Diritto di difesa – o mobili, all’interno di singoli episodi, dove persino fiction misconosciute come Codice Rosso (la fiction sui pompieri con Alessandro Gassman) o La tassista con Stefania Sandrelli si sono avvalse del quartiere per tentare di rinforzare un effetto di realtà mancante nel plot.

Nel cinema, invece, è la commedia a rendere più interessante l’uso del Pigneto come location. In particolare Paolo Virzì – a conti fatti unico vero erede dei grandi autori della commedia all’italiana – ha saputo cogliere con l’ironia che lo contraddistingue la vita studentesca che anima il Pigneto, relativamente vicino alla città universitaria e perciò affollato di studenti fuori sede, costretti a vivere in umidi e stipati appartamenti, magari affacciati sulla “splendida” vista della Tangenziale.
Così il protagonista di My name is Tanino, l’allora esordiente Corrado Fortuna, si struggeva nel ricordo dell’avvenente americana incontrata d’estate in Sicilia, guardando malinconicamente il deprimente paesaggio urbano, in cui il serpentone di cemento si appoggiava quasi sulle finestre di casa. E in modo analogo, la filosofa neolaureata di Tutta la vita davanti si affacciava sullo stesso (stavolta notturno) panorama prima di essere risucchiata nell’ancora più periferica distesa di cemento in mezzo alla quale si stagliava la Multiple, il call-center del film.
L’uso scenografico attuato da Virzì riesce quindi ad attualizzare una zona che, cinematograficamente parlando, vive nel ricordo aureo del Neorealismo, mentre nella realtà si evolve sempre più verso un milieu borghese che tenta di farne “la nuova Montmartre”.

Ma il regista livornese non crea dal nulla: negli anni Settanta, più precisamente nel 1975, Paolo Villaggio, diretto da Luciano Salce, in Fantozzi sfruttava con impareggiabile lucidità comica la sopraelevata per farne il simbolo della lotta quotidiana dell’impiegato medio, che, costretto a convivere perennemente con esalazioni di smog davanti le finestre di casa, tentava di piegare la situazione a proprio vantaggio, calandosi eroicamente dal balcone sull’autobus in arrivo.
Questo aspetto benevolo nei confronti del "borghese piccolo piccolo" è però bilanciato dall’amarezza dell’omonima pellicola di Monicelli con Alberto Sordi (1977), aspro rovesciamento di medaglia su una tematica tutto sommato affine, che trova sempre nel quartiere - e nell’analoga panoramica sulla sopraelevata - il suo ambiente ideale per un discorso critico sulla piccola borghesia impiegatizia.

Per il resto, il Pigneto vive nel cinema “indipendente” (da chi o da cosa bisognerà valutarlo) a basso budget, con esiti discontinui, a volte discreti tanto dal punto di vista estetico che filologico, altre volte meno chiari e perfino ambigui.
Alla prima casistica appartiene di sicuro il bel documentario diretto da Laura Muscardin, Figli di Roma città aperta, in cui Vito Annichiarico, che nella pellicola rosselliniana aveva interpretato Marcello, il figlioletto di Anna Magnani, passeggia per il quartiere alla ricerca di ricordi, cui vengono alternate interviste al figlio di Rossellini, a Luca Magnani, al figlio del produttore Venturini – subentrato a Peppino Amato, che si era ritirato scioccato dal crudo realismo della pellicola – in cui il Pigneto rivive nel suo passato e nel presente, apparentemente simile eppure mutato nel profondo.
Gli altri lavori appaiono invece più votati a descrivere il Pigneto – o meglio l’area dell’isola pedonale – come una nuova Babele, cuore pulsante del territorio, crocevia di etnie ed esperienze culturali e artistiche (incluse nelle immagini di film a soggetto, come Solitudo di Pino Borselli, quanto in documentari come Via del Pigneto di Laura Bispuri), cui fanno capo le tante associazioni operanti nella zona.
Omaggio al Pigneto è proprio questo. Essenziale nella struttura, anche se mediocre dal punto di vista linguistico, l’opera ha il merito di fare il punto su una terra di nessuno in cui ogni associazione culturale si mostra a conti fatti come una realtà isolata, pur fotografandola nel momento in cui – in vista dell’apertura di uno spazio ambito come quello del Nuovo Cinema Aquila – si tentava di coordinare e trovare un comune denominatore per esperienze così frammentarie.

Il Pigneto infatti non è soltanto un set, una location scelta dal cinema e dalla tv ufficiali, ma anche una fucina produttiva e distributiva dove un posto di rilievo occupano la realizzazione e il passaggio di prodotti indipendenti: dalla Riot Video di Margine Operativo (associazione attiva dai primi anni Novanta) allo spazio multifunzione (è scuola di montaggio, casa di produzione e tanto altro) della Digital Desk, senza dimenticare l’opera di educazione culturale svolta da cineclub storici come il Grauco, che (r)esiste dal 1975, arrivando ad Alphaville – prima realtà ad avere intuito a inizio decennio le potenzialità del territorio – cui si è aggiunto recentemente OffiCine Pigneto – che hanno fornito le basi su cui edificare il progetto del Nuovo Cinema Aquila.
L’edificio è stato oggetto di lunghe lotte da parte di gruppi del quartiere, a volte anche strumentalizzati politicamente. Dopo aver subito una sorte comune ai tanti cinema di zona, degradati a sale a luci rosse e poi pian piano chiusi, il cinema Aquila era finito in mano a personaggi affiliati alla Banda della Magliana (ma questo costituirebbe un capitolo a parte sulla storia del quartiere) e ora, “salvato” dal Comune di Roma, e affidato – dopo vicende non meno tortuose – alla cooperativa Sol.Co, è diventato il centro culturale del quartiere su cui viene convogliata la maggior parte degli investimenti.

Eppure in una storia tanto edificante una nota stonata c’è: dalle tante riunioni tra Sol.Co e le associazioni del territorio sopra citate non si è prodotta alcuna effettiva collaborazione. Anzi, l’impressione è che il figliol prodigo abbia raccolto tutte le attenzioni delle istituzioni, dimenticando chi per anni, anche tra gli stenti, ha portato avanti un discorso culturale rivolto sempre e soprattutto al quartiere.
Oggi il Nuovo Cinema Aquila porta avanti una programmazione che unisce prodotti commerciali al cinema indipendente, nonché a collaborazioni con manifestazioni importanti e blasonate come il Festival del Film di Roma, il TEK Festival e tanto altro ancora. Portando da altre zone appassionati e addetti ai lavori, accelera quel processo di disgregamento dell’identità che è in piena attuazione nel quartiere.
È bello sapere di non essere più un ghetto, di essere parte integrante di quella Roma che prima non era a conoscenza dell’esistenza di questa zona, ma per ora è forse fallito il progetto di fare dell’Aquila un cinema che sia non solo – ma anche – di quartiere.
E allora, con la soddisfazione per una zona che si apre verso l’esperienza cittadina più moderna, convive la sensazione più triste di un altro pezzo di romanità che soccombe alla “sprovincializzazione” metropolitana.


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