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PANORAMI DA PESARO

Pubblicato il 1 luglio 2006 da Edoardo Zaccagnini


PANORAMI DA PESARO

Cinque incontri pesaresi per capire alcune cose: che il cinema italiano continua ad essere un’ arcipelago vulcanico il cui pubblico se ne è scappato alla fine degli anni settanta. E’ una fungaia disordinata, tagliata fuori dalle cartine cinematografiche. Quasi non esiste un turismo di massa e chi vi si avvicina compie un viaggio di tende e sacchi a pelo. Questo cinema conosce un turismo settoriale di cinefili in senso stretto, spesso studiosi della materia. Qualche isola ha scelto le masse “spensierate” e abbandonate a pacchetti fine settimanali di agenzie televisive. Per loro c’è un’oasi con villaggi turistici ben omologati e discoteche. “Tutti a Panarea che si ride, si balla (sia la techno che il revival) e non si corre nessun rischio personale. Troverete quello che già avete in casa ed in memoria. Dovete solo rilassarvi e lasciarvi intrattenere”. Così, ogni stagione, qualche affollato traghetto di scolaresce e di famiglie attracca. Le altre isole, non tutte realmente interessanti, attendono rassegnate e rabbiose, ognuna il suo barcone. C’è chi costruisce la zatterona per andare a prendere la gente, chi organizza una cooperativa con altri isolotti per costruirne una tutti insieme, chi paga una tangente morale alla compagnia dominante per rientrare nella rotta ufficiale. Agli incontri di Pesaro aleggia il fantasma di un passato glorioso in cui queste terre erano abitate da geni e da filosofi e il turismo fluttuava vigoroso e soddisfatto. Ogni isola aveva le sue caratteristiche ed ogni palato aveva il piatto in cui nutrire la sua fame di sapere cinematografico. I vecchi del porto parlano di una piccola Chernobyl culturale che all’inizio degli anni ottanta avrebbe sconvolto cultura e natura di ogni luogo, dove per natura si intende un sistema di nascita, sviluppo e morte e per cultura la vita che c’è dentro queste fasi. Cosa accadde in quegli anni, la mostra di Pesaro lo dà per certo e per scontato. Lo considera l’anno zero di una ripartenza deragliata per venti anni e definita sommariamente come “crisi del cinema italiano”. Chi scrive si è abituato a dare per certa un’altra cosa e cioè che gli Eden non esistono se non come costruzione ideale da contrapporre strumentalmente a realtà complesse. Non si riesce a immaginare un mondo in cui gli interessi dei finanziatori siano amanti di quelli degli artisti, un mommento in cui la massa vedeva in Antonioni un cinema godibile ed utile. Non sono questi il momento e il luogo per definire la qualità del cinema italiano degli anni ottanta e novanta, ma la quantità degli esordi italiani presenti nella retrospettiva curata da Vito Zagarrio, mostra quale complessità appartenga agli anni cinematografici di questo scavalcamento secolare. Per fortuna in cinque giorni di posizioni differenti e onesti giochi delle parti, c’è pure qualcuno che ha definito superata, nel senso di assorbita come componente naturale, questa ormai storica crisi. Si dà per endemica la natura sconnessa e traditrice del terreno, la si accetta odiandola e sfidandola, rifiutandola, a volte, come identità integrante del far cinema. Sono gli orgogliosi e sinceri indipendenti, ma ci sembra che ci siano sempre stati. Poi ci sono quelli che pendono dalle labbra del sistema e che lo odiano se questi non li guarda ma lo difendono se gli fa un sorriso. Tra le tante cose dette in cinque giorni, nell’ultima sezione di questo processo alle parti del cinema italiano, è intervenuto Carlo Brancaleoni, responsabile della produzione dei film di esordio e sperimentali per RAI Cinema, che ha detto una cosa sulla quale è bene riflettere. Non l’ha detta quando ha preso il microfono per la prima volta, l’ha detta verso la fine, quando il dibattito aveva perso formalità e la complicità del clima pesarese aveva invitato tutti a gettare la maschera. Brancaleoni ha spiegato come spesso le richieste dei giovani cineasti italiani pretendano di voler imporre il proprio se al pubblico. Lo definisce come “un esame egoistico della visione della realtà” che produce un’incomunicabilità tra le due parti e soprattutto annulla l’esportabilità del cinema italiano. In sostanza il proprio io si antepone agli altri che guardano. Il che se da una parte è artistico dall’altra rifiuta consensi generali e soddisfazioni economiche. Su questa dicotomia tra intellettuale, artista, autore e pubblico, denaro, successo popolare Si apre una forbice che crea tensioni, frustrazioni, incomunicabilità. su questo punto infiammato, delicato, vasto e complesso, si risolve la rissa educatissima, onesta ed utile di pesaro 06, sulla quale torneremo appena ce ne sarà il tempo.

Giugno 2006


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