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Paolo Sorrentino: l’uomo in più del cinema italiano

Pubblicato il 28 maggio 2008 da Gaetano Maiorino


Paolo Sorrentino: l'uomo in più del cinema italiano

Quando gli si chiede della sua formazione cinematografica, Paolo Sorrentino si schermisce e risponde di non essere mai stato un grande cinefilo, di non essere stato un gran frequentatore di sale buie da giovanissimo, ma di aver avuto una folgorazione “damaschiana” dopo aver visto i film di Fellini, a circa vent’anni, affascinato dalla visionarietà e dallo stile di questo grande maestro del cinema italiano. Gli ultimi commenti della critica nazionale e internazionale hanno invece avvicinato il giovane cineasta napoletano a figure come Petri e Germi, esponenti di una generazione di registi italiani che hanno fatto dell’impegno politico la componente predominante della loro opera. Ma Sorrentino, ormai entrato di diritto tra i grandi Autori (quelli con la A maiuscola) del cinema internazionale dopo aver ricevuto il premio della Giuria all’ultimo festival di Cannes, non è principalmente un regista politico. Se si guarda alle storie da lui messe in scena dal primo lungometraggio a oggi, quello che salta maggiormente agli occhi è che il suo è un cinema concentrato sui singoli, sugli individui, storie di protagonisti ambigui, grotteschi, assolutamente fuori dagli schemi, mai emblemi della società e del mondo in cui vivono. Non c’è alcuna vibrante denuncia, alcuna indignazione ideologica, nessun archetipo, né negativo né positivo, tra i personaggi delle sue pellicole. Non sono infatti simbolici i due Antonio Pisapia in quello che probabilmente è il film meglio scritto di Sorrentino, L’uomo in più (2001): i due omonimi idoli partenopei ispirati a due storie vere (il calciatore Agostino Di Bartolomei e il cantante Franco Califano), che si specchiano l’uno nell’altro, e si sfiorano prima di perdersi annegando ciascuno nel proprio mare di disperazione (reale o metaforico che sia). Non è un personaggio simbolico Titta di Girolamo, solitario contabile dal nome frivolo de Le conseguenze dell’amore (2004), che crede che la verità sia noiosa e incrocia vite surreali confinato in un albergo-nonluogo della Svizzera italiana, in attesa di una valigia della malavita siciliana. E tantomeno è un archetipo il viscido Geremia, il sarto-strozzino dell’agro Pontino, protagonista del controverso L’amico di famiglia (2006), opera terza amata da molti e altrettanto denigrata. Quello che sta a cuore a Sorrentino non è infatti elaborare i mali della nostra società e realizzare opere militanti. Sembra invece che sia molto più importante per lui costruire degli spaccati esistenziali di uomini fuori dal comune, ed è probabilmente per questo che il suo ultimo protagonista è il divo Giulio Andreotti, decisamente il più importante e influente politico dell’Italia repubblicana, traghettatore di anime politiche, impenetrabile, a volte inquietante, di sicuro affascinante.

Scrittore raffinato, brillante ideatore di dialoghi e monologhi che restano nella mente, grande affabulatore, Sorrentino fa della scrittura una fase fondamentale dei suoi film. La cura per la sceneggiatura è evidente, così come la capacità di adattare il suo stile agli attori che chiama alla sua corte (Toni Servillo su tutti). Ma quello che risalta ancora di più guardando i suoi film, è la grande padronanza del mezzo cinematografico, una tecnica innovativa e del tutto peculiare, fatta di movimenti di macchina che seguono direzioni innovative, mai banali, a volte eccessive, ma sempre originali. Quasi a voler far capire che le storie di personaggi straordinari, non possono essere narrate in maniera comune. La macchina da presa che si capovolge mentre Titta di Girolamo si inietta una dose di eroina, oppure che lo segue mentre affonda impassibile in un pilastro di cemento; il lentissimo avvicinarsi al volto di Toni Pisapia nel monologo finale di L’uomo in più, quasi a volergli penetrare nel profondo man mano che il cantante racconta la sua gloriosa storia; il frenetico spostarsi da un angolo all’altro degli spogliatoi del San Paolo nella sequenza iniziale dello stesso film, a cogliere ogni espressione, a far vibrare ogni spazio disponibile; tutti esempi di maestria e abilità. Sequenze che si guardano e si riguardano, si mandano indietro con il telecomando e si studiano in ogni dettaglio, non stancano mai, stupiscono ogni volta.

In molti cercavano una guida nel cammino di rilancio del nostro cinema nazionale e altrettanti l’hanno individuata in Sorrentino. L’abbraccio con Garrone dopo che entrambi avevano ricevuto un riconoscimento dalla giuria di Cannes, è stato giudicato il punto di partenza per una rinascita del movimento cinematografico italiano. Logica e ovvia interpretazione, necessaria conseguenza dell’esplosione meritata e forse anche troppe volte rimandata, dei due registi su un palcoscenico così prestigioso.

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