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Pavarotti - Festa del Cinema di Roma 2019

Pubblicato il 21 ottobre 2019 da Anton Giulio Onofri

VOTO:

Pavarotti - Festa del Cinema di Roma 2019

Per quelli che, come chi scrive, hanno seguito la carriera e la vita artistica di Luciano Pavarotti dai culmini degli anni ’70 e ’80 fino alla morte, sopraggiunta sotto le spoglie assassine di un tumore al pancreas nel settembre del 2007, il documentario di Ron Howard presentato in prima italiana alla Festa del Cinema di Roma è, senza stare a dosare le parole, un’autentica manna dal cielo. La voce di Pavarotti va annoverata tra i massimi doni di Madre Natura all’Umanità intera, tra le più straordinarie, se non la più straordinaria voce di ogni tempo, baciata dalla fortuna di verificarsi, come miracolo vocale, nell’era di massimo sviluppo della qualità tecnica di registrazione sonora. Se infatti dobbiamo accontentarci delle incisioni attufate e monoaurali di Enrico Caruso o Beniamino Gigli, di Luciano Pavarotti possiamo godere appieno lo stellare fulgore vocale nelle incisioni discografiche in stereo per la Decca insieme a Joan Sutherland o a Herbert von Karajan e Mirella Freni, che hanno consegnato alla storia della musica interpretazioni delle opere di Bellini, Donizetti e Puccini del massimo livello artistico immaginabile, e, forse costerà dirlo, ormai non più superabili. Ma il bello del documentario che Ron Howard ha voluto dedicargli è che non si tratta della consueta antologia ricucita insieme di spezzoni e brani estratti dalle migliaia di videoregistrazioni complete già arcinote alla stragrande maggioranza dei melomani: Pavarotti è infatti un ritratto umano e, una volta tanto lo si può dire, del tutto inedito di una star celeberrima i cui aspetti privati non erano mai stati illustrati ed esibiti con tanta freschezza di materiali di prima mano. Grazie agli ‘home movies’ girati con comunissime telecamerine portatili negli anni prima della scomparsa di Big Luciano da Nicoletta Mantovani, la sua seconda moglie, e da altri suoi fortunati sodali, Howard si è ritrovato a disposizione una fonte inesauribile di materiale prezioso, che fin dal preludio del film, cioè la sequenza dei titoli di testa, ha utilizzato con la consapevolezza di chi sa di sparare la sua cartuccia migliore: durate un volo in elicottero sulla foresta amazzonica Pavarotti viene attratto dal Teatro Amazonas di Manaus, dove il Fitzcarraldo di Werner Herzog aveva ascoltato Caruso, ed esprime il desiderio di cantarci. Il teatro è chiuso, ma subito si trova chi ha le chiavi, e pochi istanti dopo il tenore è sul palcoscenico dove, accompagnato al pianoforte, si esibisce in favore della telecamerina di Andrea Griminelli (il celebre flautista, che viaggiava con lui) in un’esecuzione di stupefacente bellezza di ‘A Vucchella’, canzone ‘napoletana’ di Francesco Paolo Tosti su parole di Gabriele d’Annunzio. Una vera e propria dichiarazione di intenti a dimostrare di voler fare sul serio. Per quasi due ore, infatti, intercalate a interviste di insolita intensità emotiva a molti della miriade di personaggi che hanno gravitato nella galassia del grande tenore modenese (le mogli, le figlie, le insospettate e insospettabili amanti, i suoi manager senza scrupoli, i musicisti e i colleghi, da Zubin Mehta ad Angela Gherorghiu, da Placido Domingo e José Carreras fino a Bono degli U2, corteggiato con l’insistenza di uno stalker pur di riuscire a ottenere da lui quella magnifica canzone che fu Miss Sarajevo), il film mostra sequenze mai viste, o quantomeno inedite, di alcune esibizioni canore di incredibile impatto, andate a scovare negli archivi privati dei fans e dei familiari, o dei teatri d’opera d’Europa e d’America, compresi alcuni documenti esclusivamente sonori come il debutto assoluto in un teatro della provincia emiliana nel 1961 come Rodolfo nella Bohème di Puccini. Lì c’era già tutto: l’intonazione perfetta, il fraseggio arioso, gli acuti luminosi, le mezze voci da brivido… L’intera vita dell’italiano più famoso del mondo viene perlustrata da Howard e dalla squadra dei suoi ricercatori d’archivio senza risparmiare un solo documento che riguardi i suoi immediati primi successi, i favori del pubblico internazionale, i viaggi a Londra, Mosca, Stati Uniti, e una conquista dell’America orchestrata a tavolino da manager scaltrissimi che hanno contribuito in maniera determinante all’escalation della sua popolarità, portandolo nelle piazze della provincia profonda, sugli schermi della televisione, e lasciando che in lui si sviluppasse poco a poco quella sua quasi ecumenica voglia di far conoscere l’opera lirica a quanta più gente possibile, compreso l’allora immacolato mercato della Cina Popolare. L’innata simpatia, la giovialità di un carattere sempre segnato dal sorriso, l’immensa comunicativa della sua stazza ‘importante’ hanno fatto il resto. Una delle qualità più evidenti del film è proprio quella di aver saputo mostrare la non comune tenacia di un artista dotato di un così celestiale dono naturale nell’aver mantenuto stretto nelle proprie mani il timone della propria vita e della propria carriera, senza mai mostrare quei segni di cedimento che hanno invece compromesso molti altri artisti più e meno grandi, travolti da una popolarità di non sempre facilissima gestione. Così come affettuoso e complice (e non c’è da stupirsene, visto che a firmare il lavoro è un regista che con il suo cinema non si è mai vergognato di arrivare all’intera torta del pubblico) è il racconto dell’ultima fase della carriera di Pavarotti, quando cioè a partire dal travolgente successo mondiale del concerto dei Tre Tenori alle Terme di Caracalla la vigilia della finale del Campionato del Mondo di Calcio, cominciò a inventarsi manifestazioni ed eventi musicali di entità sempre più ambiziose finalizzate alla diffusione dell’opera con il coinvolgimento delle più amate star italiane ed internazionali del Pop e del Rock. Da un lato, insomma, la febbre d’amore per la musica mista all’illimitato potere conquistato grazie all’autorevolezza della sua statura artistica e all’imponente patrimonio economico accumulato in anni di inarrestabili successi, e dall’altro le critiche grette e meschine di chi lo accusava di trascurare l’Opera né gli perdonava qualche rarissimo cedimento vocale – ma Howard non ne parla – come l’acuto mancato nel Don Carlos scaligero diretto da Riccardo Muti nel 1992, né di allargarsi un po’ troppo verso il pubblico delle grandi masse. Quello che invece Howard non nasconde, invece, è l’aperto conflitto che angustiò gli ultimi anni di Luciano Pavarotti contro il popolo della ‘sua’ gente, quegli italiani bigotti e bacchettoni che non gli perdonarono la relazione con la sua segretaria, Nicoletta Mantovani, di oltre trent’anni più giovane. Perfino il Vaticano impedì le loro nozze in chiesa, ma poco male: Luciano e Nicoletta si sposarono in un teatro d’opera, il Comunale di Modena, e dalla loro unione nacque la piccola Alice, quarta ed ultima di una figliata tutta al femminile, adorata e supportata senza distinzioni dal papà più attento e premuroso del mondo.

Ecco: quello che il Pavarotti di Ron Howard racconta e rivela durante la visione è esattamente l’innamoramento scattato nel cuore di qualcuno che non era esattamente un appassionato melomane, grazie all’insondabile mistero della grande arte della Musica, materiale che oggi si è sempre meno abituati a maneggiare: al di là del Cinema, non esiste nient’altro di tanto simile alla vita e alla sua intera gamma di passioni ed eventi come l’Opera. Perciò Ron Howard, ingaggiato dalla Decca Records dopo l’eccellente risultato del suo documentario The Beatles: Eight Days a Week, non ha avuto difficoltà a tuffarsi con l’anima e con il cuore nella biografia di un artista tanto capace di parlare a tutti, usando semplicemente quello che la natura gli ha regalato: la sua voce, la sua simpatia e la sua generosità; ma soprattutto un uomo, in grado di incantare, stregare e sedurre chiunque fosse disposto a riconoscerne qualità artistiche e umane fuori misura. Poco importa se alcuni dettagli formali denotano un’attenzione non proprio filologica alla materia del racconto (in colonna sonora si ascoltano pagine operistiche nella sola versione orchestrale, cioè senza le voci, alcune delle quali non riferibili direttamente a Pavarotti, come ad esempio l’aria del catalogo di Leporello dal Don Giovanni di Mozart), ma tenuta in conto la destinazione di un prodotto del genere, ben venga una ricostruzione così tesa e appassionata della biografia di un cantante d’opera che grazie alla propria arte ha davvero superato barriere che nessun altro era riuscito ad abbattere. Le sequenze del concerto dei Tre Tenori, o l’esibizione sotto un torrenziale acquazzone a Hyde Park davanti a una Lady Diana zuppa di pioggia, lasciano addosso il senso di quel che l’Italia avrebbe dovuto continuare ad usare come arma di seduzione verso il mondo intero, ignorando lo squallore morale e culturale che da Berlusconi in poi la umilia e affossa: la propria arte, la propria musica, il Melodramma, la propria lingua colorata dalle melodie immortali di compositori che in tutto il Globo ci invidiano (mentre noi ci annulliamo nell’ignoranza e nell’indifferenza) e di cui Luciano Pavarotti è stato per quasi mezzo secolo supremo e incontrastato ambasciatore.


CAST & CREDITS

(Pavarotti); Regia: Ron Howard; sceneggiatura: Mark Monroe; montaggio: Paul Crowder; interpreti: produzione: Nigel Sinclair, Brian Grazer, Imagine Entertainment, White Horse Pictures; distribuzione: Nexodigital; origine: USA, 2019; durata: 114’


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