Pesaro 45 - Rachel - Bande à part

Rachel Corrie era una studentessa americana di appena ventitre anni quando una ruspa, nella strisca di Gaza, le lasciò cadere addosso un cumulo di detriti schiacciandola mentre effettuava retromarcia. Aveva vissuto gran parte della sua vita ad Olympia, nello stato di Washington. Qui aveva frequentato l’"Evergreen State College" (nome beffardo per una fine così prematura), e si era concentrata sull’Arte, ma anche sulle relazioni internazionali, un tema forte e scottante per l’America post 11 settembre. Era colpita in particolar modo da come la realtà globale influenzasse e soffocasse le realtà locali.
Questo dissidio tra grande e piccolo, la spietatezza del sistema economico che tutto omologa a propria immagine e somiglianza la atterriva. Ma Rachel aveva poco più che vent’anni e al timore si aggiungeva l’incoscienza e il desiderio di far qualcosa per cambiare il mondo. Animata da un forte desiderio di pace e pronta a sfidare le regole borghesi sentì il bisogno di conoscere altre realtà locali che non fossero quella al sapore di torta di mele della sua Washington. Fece, quindi, domanda per recarsi in Palestina (era al suo ultimo anno di college) dove, dal 18 gennaio 2003, cominciò a partecipare attivamente alla resistenza nei confronti dell’esercito israeliano. Come membro dell’ISM ebbe modo di partecipare a diverse azioni pacifiste: un processo farsa contro Bush, una manifestazione contro la guerra in Iraq (durante la quale bruciò la bandiera del suo paese) e, infine, una serie di dimostrazioni contro la demolizione delle case palestinesi da parte dell’esercito israeliano.
Le demolizioni, secondo il governo, avevano scopi ben precisi: portare alla luce ordigni eplosivi, spianare l’area eliminando rifugi utili per gli attentatori Kamikaze e chiudere i tunnell sotterranei utilizzati per il contrabbando. Viste dall’altro lato del muro erano, invece, una forma di punizione collettiva e un abominio perpetrato contro inermi famiglie che in quelle case avevano vissuto e sognato.
Rachel non aveva dubbi al riguardo. Sposa fedele dell’ideale antiisraeliano, armata solo di un megafono e del suo povero corpo, la ragazza cercava l’azione di disturbo non violenta. Non che la fine non fosse nota, non che queste azioni potessero davvero qualcosa contro i bulldozer e i carri armati, ma era sempre meglio che starsene a casa, in poltrona, sapendo quel che succedeva.
Davide non poteva nulla contro Golia. Una fionda non poteva, nel 2003, a Rafah, fare la differenza di un’ennesima guerra senza senso. E così una ruspa, troppo occupata a buttar giù muri per badare alle formiche, se l’è portata via in un soffocato strascico di polemiche.
Fu incidente? Rachel è stata davvero, come sostengono i suoi compagni sulla base di opinabilissime documentazioni fotografiche, uccisa volontariamente e a sangue freddo?
Simone Bitton a queste domande comode della retorica avvocatizia che tanto piace ai media ne aggiunge una terza più inedita e scomoda: in un mondo allattato al seno dell’odio come possono gli incidenti essere meri incidenti e come fa l’omicidio ad essere semplice omicidio? Come può la verità stare in un posto piuttosto che in un altro?
In un mondo dove anche gli animi più gentili si divertono a prendere di mira, coi propri fucili, le taniche preziose dell’acqua perché, a loro dire, è bello vedere gli zampilli coi raggi ad infrarossi, come può l’omicidio essere totalmente intenzionale?
La guerra ci abbruttisce tutti. In una direzione come nell’altra. E già il solo fatto che ci sia un conflitto trasforma due pur sempre ottime ragioni in due torti madornali.
Simone Bitton continua, con Rachel, la sua ricognizione sugli orrori del conflitto israelo palestinese cominciata qualche anno fa con Mur (presentato anch’esso a Pesaro). La lucidità intellettuale è la stessa, come identica è la volontà di una posizione super partes. Questa volta, però, ad essere protagonista del lavoro non è la figura impersonale di un muro abominevole, ma una donna con le sue fargilità, le sue incertezze, la sua voglia di fare la differenza (forse, e qui sta un limite, non approfondita sino alle sue contraddizioni). Nel cambio di prospettiva si perde la dimensione epocale che caratterizzava le splendide immagini di Mur, ma si acquista in empatia e calore umano.
Non è poco per scenari così desolati.
(Rachel); Regia e sceneggiatura: Simone Bitton; fotografia: Jacques Bouquin; montaggio: Catherine Poitevin, Jean-Michel Perez; produzione: Ciné-Sud Promotions; origine: Francia, Belgio, 2008; durata: 102’
