Pesaro 45 - The day after - PNC

Bo-young è una scrittrice di mezza età che ha da poco divorziato dal marito e si tiene sulle spalle un lavoro che non riesce a completare e una figlia che ama, ma con cui sembra non riuscire più a parlare. Durante un viaggio di lavoro la donna di vede costretta a dividere la stanza con Cheong-nam, unattrice poco più giovane di lei e anch’essa divorziata. Dopo un’iniziale diffidenza le due donne finiscono per passare l’intera nottata bevendo birra e confidandosi. A dir la verità a parlare di più è proprio l’attrice, mentre Bo-young, chiusa nel proprio personale riserbo, sembra intenzionata a raccontare più attraverso i silenzi che non mediate le parole.
La nottata ha, però un valore eminentemente catartico. La scrittrice, presa nella sua crisi di fronte ad una pagina bianca che non riesce a riempire e che, ad inizio pellicola era stata capace di inveire contro un povero facchino che non aveva altra colpa che quella di averle ingombrato la strada, si rispecchia nella dimensione di divorziata della sua compagna di stanza e trova la forza di cominciare un percorso interiore che la porterà, almeno così suggerisce il finale aperto a reinventare se stessa e la sua vita.
The day after è un film piccolo ed affettuoso, costruito in maniera lineare e completamente appoggiato, quasi fosse un muro portante, sull’interpretazione (ad un passo dal sublime) della sua protagonista.
Il regista rivela mano felice nella descrizione della terra bruciata che la donna costruisce intorno a sé dopo un divorzio di cui non conosciamo le motivazioni e, soprattutto, sa come gestire la lunga parentesi centrale (praticamente due terzi dell’intera pellicola) della forzata convivenza tra le due donne.
In effetti The day after è prevalentemente un film di interni, un film che si chiude in ambiti sempre più piccoli mano a mano che la protagonista sprofonda nella sua depressione. Una pellicola che si porta impressa una notevole nostalgia degli ampi spazi aperti di una storia che avrebbe potuto essere diversa se non fosse intervenuto l’evento catastrofico del divorzio. Il digitale aiuta a rendere più claustrofobici e dolenti gli spazi del racconto, riempiendosi di luci rossastre che mimano la condizione di un utero materno o di una grotta platonica che deve portare, dopo un lungo percorso di autoconsapevolezza, ad una riscoperta delle proprie possibilità e al desiderio di costruire un futuro migliore.
Lee Suk-gyung resta attaccato alla sua protagonista, ne insegue le minime sfumature interpretative e definisce con chiarezza ogni tappa della sua lenta risalita dal pozzo del dolore. La sua regia non cerca effetti e non si sbilanci in simbolismi d’accatto, ma punta sulla descrizione di un dolore borghese che racconta, tra le righe, non solo la condizione femminile in Corea (dove è ancora un disonore avere legami di parentela con donne divorziate), ma un’intera classe sociale: l’abbiente ed istruita media borghesia intellettuale del paese.
Il film colpisce per la sua discrezione e la sua limpida empatia coi personaggi messi in scena. A tratti è anche bello e commovente, ma risulta forse un po’ troppo evanescente per avere concrete possibilità di vittoria all’interno della sezione competitiva del Festival.
(EODDEON GAIEN NAL); Regia e sceneggiatura: Lee Suk-gyung; fotografia: Kim Jae-hong; montaggio: Lee Suk-gyung; musica: Shin Seong-ah; interpreti: Kim Bo-young (Bo-young), Chi Cheong-nam (Cheong-nam), Kwon Yerim (Yerim); produzione: Korean Academy of Film Arts (KAFA); origine: Corea del Sud, 2009; durata: 87’
