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Pesaro 46 - Eighteen - PNC

Pubblicato il 26 giugno 2010 da Alessandro Izzi


Pesaro 46 - Eighteen - PNC

Autobiografia in punta di penna. Questa potrebbe essere, in estrema sintesi, la formula della poesia discreta di un film come Eighteen, presentato a Pesaro nella sezione competitiva.
La storia narrata è, infatti, volutamente ricalcata su episodi realmente accaduti al regista durante la sua prima, travagliata storia d’amore. Tutto quel che compare sullo schermo, quindi, dai vagabondaggi di coppia all’interno del tessuto urbano (magnificamente fotografato), all’opposizione strenua delle famiglie al loro amore (sino alla scena quasi incredibile del contratto che il ragazzo deve firmare nel quale si impegna a non rivedere la ragazza sino al conseguimento del diploma) non è abile lavoro di fantasia, ma una cronistoria abbastanza fedele di una storia che ha davvero caratteri di esemplarità.
Dietro la reticenza di una confessione portata avanti con delicatezza e senso del pudore, il regista, però, costruisce, quasi in filigrana, un discorso poetico che segue due piste contemporaneamente.
La prima è quella della definizione di un disagio che da personale (e, quindi, naturalmente autobiografico) si allarga volutamente al sociale. Dai dialoghi del film (assai scarni, ma anche molto pregnanti in questo senso) emerge, infatti, l’idea di un mondo, quello coreano, in cui la famiglia è unità costituiva incapace di mediare tra le esigenze del singolo componente e quelle di stabilità dell’intero organismo familiare. La storia d’amore, quale essa sia, che non nasce all’interno di una precisa serie di calcoli di “convenienza”, va, da questo punto di vista, osteggiata in ogni modo, senza alcuna remora per quelli che possono essere i sentimenti reali delle persone in essa coinvolte. I due giovani protagonisti del film non possono amarsi, non perché appartenenti a due mondi diversi, ma perché il loro amore può, secondo la logica gerarchica familiare, diventare facile elemento di distrazione dallo studio e dalla scuola. Questa sordità dell’organismo familiare alle esigenze del singolo sembra essere, soprattutto nella tenera età dei due giovani protagonisti dell’opera, del tutto invalicabile. E a nulla valgono i tentativi dei due ragazzi di aggirarlo ignorandolo.
Questa visione del microcosmo familiare è, forse, l’aspetto più originale della pellicola e la spiegazione della sua struttura dicotomica fondata sull’alternanza di interni in stile kammerspiel, con esterni cittadini che contribuiscono alla definizione di una realtà urbana inerte testimone dei vagabondaggi della coppia e del suo inesorabile sgretolamento di fronte all’ingerenza familiare.
La seconda pista seguita dal regista nella ricomposizione di questo breve viaggio sentimentale è quella di trasformare il racconto, accorato e dolce, in spazio per un’elaborazione del lutto derivante dalla fine della sua storia personale che è anche quella della fine di tante storie di un’intera generazione.
Il tono intimista si piega, quindi, con estrema cognizione di causa, in un discorso che non vuole essere mero ripiegamento nel privato, ma che si impone come possibile strumento di rielaborazione del dolore attraverso la comprensione dell’altro e delle sue motivazioni (in particolare quelle della ragazza incapace, alla fine, ad opporsi alla volontà della famiglia).
Per questo il regista rifiuta ogni intento polemico e piega il suo racconto ai toni di una nostalgia minuta, quasi a mezzo sguardo.
Eighteen colpisce per la sua impalpabilità estrema, per la sua volontà di indagare negli sguardi e nelle reticenze dei suoi personaggi, per la capacità di aderire nelle intime pieghe del mondo messo in scena con capacità di analisi che non si fa mai giudizio inappellabile.
E alla fine si chiude con un gesto di abbandono che è di estrema poesia, con una telecamera buttata sulla spiaggia che filma ancora, a distanza, i due amanti che giocano nel mare. L’amore e il suo senso sfuggono per sempre allo sguardo fenomenologico di una macchina da presa.


CAST & CREDITS

(Hoe-ori ba-ram); Regia e sceneggiatura: Jang Kun-Jae; fotografia: Lee Hyung-bin; montaggio: Lee Yeong-jung, Jang Kun-Jae; interpreti: Seo Jun-yeong (Kim Tae-hoon), Lee Min-ji (Park Mi-jeong), Kwon Hyeok-pung (padre di Tae-hoon), Han Na (mamma di Taehoon), Choi Hyo-sang (padre di Mi-jeong); produzione: wooSan Film; origine: Corea del Sud, 2009; durata: 95’


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