Pets

Pets si prefigura, all’interno del panorama della programmazione televisiva di questo autunno, come uno degli esperimenti più anomali ed interessanti mai visti fino ad oggi. Caratterizzato da un gusto iconoclasta e dissacratorio, il piccolo puppet show (che riprende, incattivendolo, il meccanismo del classico Puppet show americano) è quanto di più politicamente scorretto si possa immaginare. Non stupisce, quindi, che la rete che ne ha acquistato i diritti, e che lo sta trasmettendo, sia proprio MTV che da sempre ricerca, nell’impostazione del suo palinsesto, una propria definizione di rete decentrata e controtendenza. Che, poi, negli assurdi equilibri portati avanti dalla nostra società capitalista ed onnivora, essere in controtendenza significhi paradossalmente, essere, comunque, di tendenza, è ormai un triste, quanto assodato, dato di fatto. E se possiamo assistere allo strano spettacolo di una fascia generazionale sedicente di sinistra che riesce a muoversi in manifestazioni compatte solo se a guidarla è un cospicuo apparato di altoparlanti che sputano fuori a tutto volume un altrettanto sinistroide sound, allora possiamo vedere, con altrettanta nonchalance, questa piccola serie di telefilm che fa del nichilismo assoluto una delle sue formule vincenti. La provocatorietà della sit-com per pupazzi non risiede, quindi, tanto nelle varie situazioni descritte che arrivano, comunque, a momenti di assoluto cinismo con delitti impuniti, processi falsi e tendenziosi (tanto somiglianti a quelli che si consumano per davvero nella nostra pur italianissima penisola) o ad eliminazione fisica di prole indesiderata mediante sciacquone del water, quanto, piuttosto, nel tono di palese, ma distorta normalità quotidiana con cui questi episodi vengono narrati. E non basta, certo, l’astrazione garantita dall’uso delle bambole di pezza al posto degli attori in carne ed ossa a distanziarci ironicamente dagli orrori sociali (terribilmente realistici) che vengono messi in scena. Al contrario l’intera confezione, genuinamente grottesca e caratterizzata da un acido humour tipicamente inglese (e quindi molto verbale), viene fatta urtare sapientemente con l’orrore descritto lasciando spesso lo spettatore attonito, incerto se ridere (ma ridere verde, tragicamente e senza catarsi) o dimenarsi incerto sulla poltrona, squassato dal dubbio. Gli stessi personaggi messi in scena si rivelano campioni grettissimi di gretta umanità, rivelano una precisa strutturazione per classi sociali e razziali. Anche se l’ideale convivenza tra loro sembrerebbe suggerire un’utopica integrazione tra persone razzialmente e socialmente diverse, la violenza che governa il loro rapporto di beckettiana reciproca dipendenza (ma vengono in mente anche precisi spaccati Pinteriani in certi episodi) lascia piuttosto presentire le contraddizioni di una società solo apparentemente multirazziale ed integrata. Sembra quasi che la globalizzazione (berlusconianamente invocata) possa aprirsi solo alla logica del comune denominatore dell’abbrutimento e del cattivo gusto (e qui ci si sente anche un po’ di Pasolini, alleggerito, però della sua carica tragica). L’orrore della globalizzazione, insomma, che si consuma sotto i nostri occhi pur nella sempre avvertita esigenza di una convivenza e di una reciproca sopportazione. I personaggi sono variegati, dicevamo, a partire dal simpatico setter rosso Hamish: una sorta di auto proclamatosi intellettuale che vede, nel suo futuro, solo la possibilità del suicidio del libero pensatore posto di fronte all’imperante volgarità dei tempi cui, comunque, alla fine, partecipa. Egli fa, quindi, parte di quella casta di persone, sempre con la puzza sotto il naso, che spalma la sua poca cultura come nutella su troppo pane. Da parte sua Trevor, un bulldog grigio, è il perfetto esponente di quella contemporaneità tanto avversata da Trevor. Nella sua totale idiozia, il cane è il perfetto concentrato degli istinti primari dell’uomo: mangiare, dormire, fare sesso. Il suo problema risiede, essenzialmente, nel fatto che le sue pulsioni sono assolutamente incontrollate e vengono esercitate non per mera sopravvivenza, ma perché, apparentemente, non c’è niente di meglio da fare se non mangiare per ingrassare e fare sesso per ingannare il tempo (e, se manca il partner vanno benissimo bidoni della spazzatura o la coperta della gatta). Terzo personaggio è JP, uno spellacchiato pappagallo filosofo che vive in un mondo tutto suo che non coincide necessariamente con lo spazio fisico della sua gabbia. Convinto di essere la reincarnazione di Joan Armatrading e che ci sia un UFO proprio nel giardino di casa, il personaggio è il prototipo del classico svitato (non a caso ripete, ad ogni puntata, che ama bere la propria orina) che guarda in un mondo altro per non confrontarsi con l’orrore della propria situazione. Infine Divina è una gatta persiana molto spelacchiata, sempre imbottita di antidepressivi e presa a scatenare la sua cattiveria in battute acide rivolte all’indirizzo degli altri componenti di questa casa ben meno rassicurante e ben più reale di quella del Grande Fratello televisivo. Completano il quadro generale i vermi intestinali di Trevor (cui sono assegnate spesso splendide gags) e un pesce rosso morto, il cui cadavere galleggiante è spesso interpellato da personaggi incapaci di alcun tipo di reale contatto umano. Eppure tra le piaghe della loro esistenza si affaccia continuamente l’esigenza di una vera autentica reciproca comprensione. Un’opera della televisione inglese, tra le più interessanti, originali e genuinamente dissacratorie degli ultimi anni. Un’opera, in ultimo, che poteva vedere i natali solo nelle contraddizioni sociali e politiche del mondo anglosassone di cui è uno specchio fedele e tragico.
(Pets); regia: Mike Stephens; Sceneggiatura: Andrew Barclay, Brian West; Creature design: Jestyn Evans, Andy Heath; Puppeters: Garry Rutter, Mandy Travis, Martin Weinling; Musica originale: Mediasmiths; Cast: Ian Angus Wilkie, Andrew Barclay, Sally Elsden, Petros Emanuel; Produzione: Andrew Barclay, Brian West; Origine: Inghilterra, 2002
[dicembre 2002]
