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Preparativi di fuga

Pubblicato il 23 agosto 2008 da Alessandro Izzi


Preparativi di fuga

Ogni fuga presuppone una prigione dalla quale evadere. Non tutte le prigioni, però, hanno le sbarre con i secondini che passeggiano tra i corridoi ad orari stabiliti e le luci che non si spengono mai, neanche di notte. Non tutte le prigioni sono fatte di ferro e cemento, col cielo chiuso da un soffitto che manda giù polvere e calcinacci al solo guardarlo.
Ci sono anche le prigioni che te le perdi nel giro dell’orizzonte. Prigioni vaste come la terra che abbracci con gli occhi. Con alberi al posto delle sbarre e casupole al posto delle stanze. I secondini sono quelle madri che ti hanno dato i natali e quei padri che ti hanno sfamato con quel tozzo di pane che potevano permettersi con il loro poco lavoro. Fieri ed aspri come un inverno tra i monti del sud Italia.
Questa prigione ci racconta Cotronei nel suo ultimo intenso film/documento. E nel momento in cui cerchiamo di descriverlo a parole ci rendiamo conto che un po’ gli stiamo facendo violenza. Perchè le frasi che normalmente ci vengono alle dita, che si formano sulla tastiera del PC sul quale stiamo lavorando sono troppo imbevute di letteratura per non dare alle immagini che abbiamo appena visto quel di più di sentimento che è estraneo allo sguardo asciutto di Cotronei che le cose le guarda, un po’ le giudica anche, ma che lo fa dall’alto di un rigore che non ammette pietismi, nè facile condiscendenza.
Così quelle case di Vibo Valentia (uno dei posti più terribilmente arretrati della Calabria, sicuramente quello più lontano dall’Italietta opulenta della nuova borghesia arricchita che tanto piace a Berlusconi) ti diventano sotto gli occhi il segno tangibile di una prigione arcaica che ti preclude ogni via di fuga. Sono il luogo delle lente processioni religiose che si ripetono a cadenza annuale sempre uguali a se stesse. Sono lo spazio entro cui si consuma il teatro mesto di una cronaca familiare che sembra scritta da millenni sul marmo dei silenzi che sono l’unico dialogo possibile tra i padri e i figli che la abitano.
La realtà è di una semplicità sconcertante: se hai la sventura di nascere tra quelle quattro mura, la tua vita è segnata. Passerai, bambino, un’infanzia a giocare sotto le gambe dei tavoli delle cucine coi gatti unici padroni dello spazio e a loro modo liberi. Sognerai, adolescente, un altrove come quello che si vede negli apparecchi televisivi o che si sente nelle trasmissioni radiofoniche. Ti rassegnerai, adulto, a metter su famiglia in quella casa che hai odiato e dove darai alla luce figli che ripeteranno la tua storia ancora e ancora. Poi, vecchio, ti accoderai alle processioni votive, cantando con voce inferma in attesa di quella morte che ponga fine alla commedia con una chiusura di sipario.
La storia è sempre quella. I volti possono essere diversi e con essi qualche dettaglio, ma il resto è già detto. E non ammette deroghe. Al punto che a raccontarlo non sai più se stai narrando la storia di un singolo o la cronaca di una collettività. I confini tra pubblico e privato si stemperano (è questa l’impressione che ricaviamo dalla visione del film), si fanno indefinibili. E la storia di quel giovane che vedi correre sulla sua macchina mimando le corse dei gran premi e sognando un altrove che non riesce ad andare più in là dell’uscita dell’autostrada nella quale è impossibile avventurarsi, ti diventa la storia di tutti i ragazzi di Vibo Valentia. Ragazzi che si preparano ad una fuga impossibile, che fanno le valigie e comprano i biglietti dei treni, ma poi restano a casa, tra i gatti e le nonne coi volti segnati dalle rughe.
Laddove scompare il confine tra individuo e mondo, quando non c’è differenza tra presente e passato (e, quindi, dove scompare ogni possibilità di futuro) perde senso anche la distanza che separa il colore dal bianco e nero. Nel film il passaggio dall’uno all’altro è un capriccio che, invece di segnare una differenza, certifica un’identità. Ti dice che tutto è stato come è e come sarà. E che ad avventurarsi fuori del nido si finisce come quell’uccellino che il ragazzo trova stecchito vicino alla macchina sulla quale ha appena compiuto una folle corsa (una scena necessaria, ma che forse dice troppo instilla un simbolismo che, al fondo, sentiamo come poco necessario).
Fin qui le tracce di un film che può apparire manicheo e sin troppo pretestuosamente fatalista: un Verga minore prestato al cinema, o meglio al digitale. Epperò lo sguardo di Cotronei non si ferma a questa superficie, non si accontenta di questi contenuti. Va oltre: cerca una bellezza nell’orrore. Così i paesaggi di questa terra aspra e a suo modo ancora selvaggia sono colti con lo sguardo dell’esteta. I rami che si affacciano nella neve, le acque che scorrono tra gli alberi dei boschi sono troppo intensamente belli per apparirci solo quella terribile prigione che in fondo sono. La videocamera fa loro dono di una bellezza spoglia cui il regista non ha potuto nè voluto aggiungere nulla. E così quei volti che ci raccontano la loro storia senza bisogno di intermediari. Sarà per la musica di Arvo Part, che aggiunge all’immagine un senso di preghiera e di dolore, ma quei paesaggi finiscono per farsi incredibilmente russi. Li cercheresti quasi in un film di Tarkovski.
E a proposito di musica: nel film essa si fa strada in maniera inaspettata, ma mai incongrua. Sottolinea il senso dell’immagine creando un ponte ideale tra la sua concezione minimale e la visione non meno minimale dello sguardo del regista. Una musica chiusa in un cerchio di suoni, senza sbocchi. Lenta nenia che non si sviluppa mai se non nella sua stessa ripetizione estenuata. Correlativo sonoro ideale per questo film come sempre (per chi conosce Cotronei) indefinibile.


(Preparativi di fuga); Regia, sceneggiatura, fotografia, montaggio e produzione: Tommaso Cotronei; musica: Rino Gaetano, Arvo Part, Balenescu Quartet; interpreti: Antonio Aloi, Domenico Calogero, Montagna Carnovale, Nadia Cavallaro, Francesco Cavallaro; origine: Italia, 2008; prima proiezione: Festival di Locarno, 2008; durata: 39’


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