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PROCEDURAL DRAMA

Pubblicato il 7 gennaio 2006 da Giampiero Francesca


PROCEDURAL DRAMA

Una delle caratteristiche che maggiormente identificano la serialità americana è la capacità di reinventare, rimodellare i generi cinematografici, rendendoli appetibili a un pubblico sempre diverso. In modo da divertire, intrigare e sorprendere sia gli appassionati dei classici che le generazioni dei più giovani, che conoscono quel cinema solo di fama o attraverso quei registi che al grande schermo hanno effettuato un procedimento simile. Su tutti spadroneggia Quentin Tarantino e un esempio di questa straordinaria capacità è in onda sulle nostre reti, con i due procedural drama: CSI ( e suoi spin off) e Medium, che rappresentano gli opposti a cui è possibile approdare da una matrice comune. Il primo è freddo e impersonale; il secondo è intimo ed emotivo. Uno è tecnico, scientifico, basato sulla ferrea logica del processo cartesiano (raffigurato alla perfezione dal protagonista Gill Grissom/William Petersen); l’altro, che del sovrannaturale e del paranormale fa regola, relegala la logica alla grettezza di piccoli e poco brillanti poliziotti di provincia. Entrambi hanno in comune la struttura narrativa, il luogo di svolgimento e tutta una serie di caratteri e personaggi secondari tipici del genere originario. Sono questi che rendono maggiormente comprensibile ed identificabile lo stile di riferimento,e contemporaneamente, abituano lo spettatore alla visione di qualcosa di nuovo che altrimenti potrebbe disturbarlo. Non è questione di denari ma di idee, di persone giuste al posto giusto. Molte delle serie made in USA sarebbero altrettanto valide anche se realizzate con budget ridotti, magari con meno effetti speciali e scene d’azione, perchè la loro forza risiede proprio nella capacità di plasmare la materia cinematografica classica, ibridandola, in modo da ottenere prodotti sempre nuovi e intriganti. E’ certamente vero che accanto ai titoli di maggior esportazione, quelli che vincono gli Emmy, esiste una moltitudine di serial “classici” che ricopiano pedissequamente se stessi, ma la presenza, anno dopo anno, di prodotti innovativi dimostra la capacità di un sistema di autoalimentarsi e le sue potenzialità di infinita crescita. Qui da noi la scarsa considerazione del pubblico da parte dei pubblicitari, veri propulsori della macchina televisiva, e l’accidia degli autori impedisce questo procedimento, cristallizzando la nostra opera su banali fiction, soap-opera, e clonando decine di volte la stessa idea o copiando semplicemente ciò che proviene dall’estero. Ripeto, non è solo questione di budget ma di mentalità. La società americana, pur imperfetta e lacunosa per moltissimi aspetti, ha però la straordinaria capacità di funzionare all’interno di un sistema di mercato. Il criterio meritocratico, seppur pesantemente gravato da un organizzazione scolastica classista, la competitività fra istituti, la compenetrazione fra istruzione e mercato del lavoro, la capacità di investire in progetti giovani e innovativi, rendono il modello americano un circolo virtuoso che giova non solo alle casse delle major, ma anche al miglioramento della qualità del prodotto, e, cosa non da poco, consente una continua formazione di nuove leve. E’ triste dover costatare che da noi tutto ciò non accade, il merito è considerato raramente requisito primario (non solo dell’industria cinematografica e televisiva), mancano le strutture e le poche presenti sul territorio nazionale (tutte a pagamento, che demoliscono l’unico vanto di cui potevamo ancor esser orgogliosi) risultano a noi talmente distanti dalla realtà vera del cinema o della televisione da essere totalmente inefficaci. Le possibilità di un ragazzo, magari appena laureato, di entrare in una casa di produzione, o peggio, di metter piede su un set, o mano ad una sceneggiatura, è nulla e la sua possibilità di incidere su idee e progetti ridicola. Non si vuole osare, rischiare di immettere, in un palcoscenico già saturo, prodotti dall’incerto futuro. Bisognerebbe migliorare le strutture e il loro rapporto con il mercato del lavoro, premiando, magari, chi lo merita con la possibilità di incontrare registi e sceneggiatori. Si dovrebbero gestire i talenti, in modo da sostenere il sistema produttivo, arricchire la qualità della nostra opera, puntando anche all’esportazione, per ingrossare le tasche di chi produce, sperando che sappiano seguire l’esempio dei loro epigoni americani: guadagnare e reinvestire. In questo caso non ci vuole la sensibilità di Allison Dubois ma la lucidità, la capacità analitica, la razionalità di Gill Grissom, per provare almeno a risolvere i problemi che affliggono il nostro cinema e la nostra tv.

Idea e Sceneggiatura: Anthony E. Zuiker Interpreti: William L. Petersen (Gill Grissom) Marg Helgenberger (Cathrine Willows), Gary Dourdan (Warrick Brown), Durata episodio: 45’

Creato : Glenn Gordon Caron Interpreti: Patricia Arquette (Allison Dubois) Miguel Sandovan, Marial Lark, Sofia Vassilieva, Jake Weber Prodotto: Glen Gordon Caron, Durata: 60’


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