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Pulp Fiction

Pubblicato il 11 aprile 2020 da Matteo Galli


Pulp Fiction

Sesto appuntamento con la rubrica #iorestoacasaecritico: è ora la volta di Pulp Fiction, di Tarantino, riletto alla luce della sistematizzazione dei consumi culturali ai tempi della pandemia. A firma di Matteo Galli.

Un giorno qualcuno dovrà occuparsi di studiare, fra le molte altre cose, originate dal Coronavirus, la questione se esista un qualche legame fra pandemia e sistematica, fra arresti domiciliari e ordine mentale. In chi scrive ha, dopo un primissimo disorientamento durato però pochi giorni, questo meccanismo della sistematizzazione dei consumi culturali attecchito in profondità. E nell’arco di alcuni giorni ha prodotto: l’intera rilettura (riascolto con la rubrica di Rai3) dei Promessi Sposi, la visione di Breaking Bad + Better Call Saul mai visto prima, la (ri o re-) visione dell’intera opera di Quentin Tarantino e da pochi giorni tutto (leggasi: tutto) Bergman. Meno interessanti per chi scrive sono risultati invece alcuni tentativi, peraltro anch’essi suggeriti dalla particolare fase biografica attraversata, di concentrarsi su film riconducibili a due sottogeneri: film distopici sui virus e film sulla sospensione del tempo, film ucronici e film acronici, potremmo dire, in questa fase in cui si assiste con certezza a una vistosa rinegoziazione dello spazio (tutti bloccati in casa) e del tempo, con i giorni che sembrano somigliarsi tutti. In entrambi i casi è bastato un esempio soltanto per passare oltre e concentrarsi su qualcosa di più essenziale e di più profondo: I am Legend nel primo caso, Groundhog Day, in italiano Ricomincio da capo, nel secondo. L’idea iniziale per questa rubrica era proprio quella di scrivere qualcosa su quest’ultimo film, uscito nel febbraio del 1993 negli USA e due mesi dopo in Italia. Ma, a rivederlo, francamente il film, al di là dell’originale idea di fondo, è parso molto molto tenue sul piano della sceneggiatura, la regia è decisamente piatta, Andie Mac Dowell assai scadente e anche l’interpretazione di Bill Murray non una delle sue migliori.

Talché mi sia consentito in questa sede azzardare, a distanza di ventotto anni dall’esordio alla regia (Reservoir Dogs ovvero Le iene nel 1992) un bilancio personalissimo sull’opera di Tarantino, un bilancio che di proposito ignora la cospicua bibliografia esistente. Tarantino ha, all’altezza dell’aprile 2020, diretto 11 film, considerando le due parti di Kill Bill due film diversi. Cui andrebbero aggiunti soggetti e sceneggiature per altri registi: fra i più celebri Natural Born Killers (1994) di Oliver Stone e From Dusk Till Dawn (1996) di Robert Rodriguez. Credo che ogni spettatore di tutto Tarantino proporrebbe una playlist diversa, anche se per esprimersi sulla playlist ritengo necessario rivedere tutti e 11 film in un brevissimo lasso di tempo, se possibile anche in ordine cronologico per studiare elementi di novità e ripetizioni.

Al termine della visione degli 11 film, sono giunto alla conclusione che il film più compiuto del primo Tarantino – diciamo del Tarantino ambientato nel presente – è nettamente Pulp Fiction [1994] (di questo gruppo fanno parte inoltre Le Iene [1992], Jackie Brown [1997], Kill Bill 1 [2003] e Kill Bill 2 [2004], ma anche Death Proof [2007]e The Hollywood Man, l’episodio tarantiniano di Four Rooms [1995]), del secondo Tarantino (quello ambientato nel passato, si tratta degli ultimi quattro film girati), credo che in termini di complessità e di innovatività la partita si giochi fra il primo di essi ovvero Inglorious Basterds [2009] e Once upon a time in Hollywood [2019], i due film ottocenteschi ( Django Unchained [2012] e The Hateful Eight [2015] sono un gradino dietro, secondo me. Difficile negli ultimi venticinque anni immaginare un film che abbia fatto epoca quanto Pulp Fiction, un autentico crocevia, da un lato, di un nuovo modo di rinegoziare il cinema (e anche la musica) del passato e dall’altro di lanciare impulsi sui film successivi: il citazionismo voyeuristico e il gusto paradossale per la violenza, la gnomica dei dialoghi e la gestione del tempo con l’artificio della rinarrazione da diversi punti di vista, l’uso raffinatissimo del soundtrack, l’utilizzo di un gruppo di attori (ma anche di collaboratori) che costituiranno lo zoccolo duro della crew tarantiniana dell’avvenire. Tutti questi elementi trovano in Pulp Fiction il suo massimo compimento, acme di un regista pieno di acme. Il sito di IMDB riporta, per quel che può valere, 137 frammenti di dialogo in qualche misura memorabili, a fronte di 113 per Le iene e di 75 per Jackie Brown giusto per restare ai film limitrofi. I film a qualche titolo citati da Pulp Fiction sono la bellezza di 149, i film che a Pulp Fiction si rifanno sono incredibilmente 933! Anche Le iene non scherza, qui i numeri sono rispettivamente 66 e 411, molto meno invece per Jackie Brown dove i numeri sono 40 e 61. La struttura spesso a capitoli o a macrosequenze dei film di Tarantino presenta in molti casi qua e là inevitabilmente dei momenti di debolezza, per esempio in Kill Bill. Nel caso di Pulp Fiction ogni episodio funziona perfettamente, ed è perfettamente integrato col resto, gli attori sono tutti perfetti: da Keitel a Travolta, da Jackson a Walken da Willis a Thurman. La scena in cui Travolta e Thurman ballano You never can tell potrei vederla all’infinito.


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