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RACCONTARE LA SARDEGNA: L’EPOPEA DEGLI SCONFITTI

Pubblicato il 5 marzo 2007 da Andrea Esposito


RACCONTARE LA SARDEGNA: L'EPOPEA DEGLI SCONFITTI

‘Siamo un popolo di servi.’

È una frase senza speranza, quella che pronuncia Costantino alla fine de La destinazione di Piero Sanna. Costantino è un carabiniere sardo che è stato mandato in servizio al nord. L’abbiamo perso di vista per tutto il film, e lo vediamo riapparire solo quando dice questa frase a Emilio, il carabiniere romagnolo mandato in Sardegna, che ha assistito impotente al compiersi di una parabola antica di omertà e vendetta. È una frase che getta un cono d’ombra su tutta una cultura, su tutto il popolo sardo, e che è frutto di una riflessione amara e rigorosa su tutta la propria tradizione e sulla propria gente. C’è un’ultima generazione di cineasti sardi (Sanna, Columbu, Pau, Mereu…), che procede ad un’elaborazione incessante – vera, perché aspra e senza indulgenza – del proprio bagaglio culturale, con quale sviluppa un rapporto dialettico, spesso conflittuale. La Sardegna che ci raccontano è una società antica che tenta faticosamente la strada del rinnovamento e del riscatto. E’ la terra in tutta la sua complessità: è la natura, protagonista in molti aspetti in questi film (sopra tutti, l’anabasi verso il mare dei ragazzini di Ballo a tre passi). Ed è il legame indissolubile tra natura e cultura, com’è stato a suo tempo magistralmente raccontato dai Taviani di Padre padrone.
Potremmo, in maniera semplicistica e riduttiva, definire materno (per quanto tale ipotetico grembo sia inospitale) il suddetto aspetto della Sardegna raccontata da questi giovani registi. Esso è una matrice che forma lo sguardo e la poetica. Così, l’aspetto paterno sarebbe quello duro e arcigno dell’autorità padronale, del padre di Padre padrone dei Taviani, o della gerarchia e dell’arretratezza che uccide il bambino de La Destinazione. Proprio perché questa cultura è indiscutibile, così chiusa e tesa alla propria sopravvivenza attraverso una conservazione immota, la gerarchia diventa un dogma. Ma essa stessa è sottomessa ad un potere più forte, forte e intoccabile. Esso può essere lo Stato: già nel 1961, in Banditi a Orgosolo, lo Stato veniva ad arrestare un pastore innocente. Egli non parla né si difende; semplicemente fugge via. Sembra avere a che fare con un potere incomprensibile, come una iattura. Lo Stato arriva da altrove, dal ‘Continente’, e impone la sua legge. Come leggiamo ne Il giorno del giudizio di Satta: ‘Tra l’altro, che cosa è la giustizia? Giustizia è l’autorità, il potere che uno ha sopra un altro, e l’autorità non si discute: e se ti condanna sei ben condannato. Ma perciò giustizia è anche sottrarsi, se è possibile, all’autorità, come è giustizia far fuori, se occorre, un eventuale testimone…’
Lo Stato arriva e chiama la gente in guerra: è la storia di Sos laribiancos, i ‘dimenticati’ della Prima Guerra Mondiale; i disgraziati, già schiavi nella loro terra, che diventano soldati contro un nemico invisibile. Ma in realtà combattono contro lo Stato che li chiama e contro il loro superiore, contro il continente e contro la guerra. Quando nel finale vengono fatti prigionieri, ormai in fin di vita, dai russi, la voce narrante dice: la prigionia, la nostra salvezza.
Difficile non vedere in tale prigionia una condizione esistenziale. Lo Stato è solo una delle forme di questo potere che fa più schiavo chi è già schiavo. Un’altra può ad esempio essere quella Voce di cui parla Salvatore Niffoi, ne La leggenda di Redenta Tiria, che chiama la gente alla morte. ‘Ajò! Preparati, che il tuo tempo è scaduto!’. Solo questo dice, Battì! Poi allunga una mano invisibile e ti porta via’.
Il potere esiste e schiaccia l’individuo, o un popolo intero, senza possibilità di scampo.
I nuovi registi sardi ben colgono questa sottomissione sofferta, e si premurano di raccontare l’epopea degli sconfitti (con un occhio non dissimile da quello di Lussu in Un anno sull’Altipiano). Alla base della realtà sembra esserci a tutti i livelli uno scontro, come tra uomo e natura, o tra individuo e autorità (è proprio questa, ad esempio, la molla del racconto di Il figlio di Bakunin di Livi). Questi registi mettono in scena tali scontri stando sempre dalla parte del perdente. Dal loro punto di vista raccontano il sentimento d’appartenenza conflittuale ad una cultura che è tradizione, ad una socialità che è gerarchia. Raccontano quest’assenza di libertà, la loro e quella del loro popolo. Ciò che è più interessante, è che riescono ad estendere il loro discorso all’umanità intera. Perché se anche parlano di un luogo specifico i loro prodotti si collocano fuori dal tempo. Le meccaniche che raccontano sono antiche e immutate, quasi astratte proprio in quanto profondamente umane. Abbiamo a che fare con film il cui maggior pregio è forse una sincera inattualità. Così, tali prodotti riescono a colpire non per un qualche esotismo, per la fascinazione di una cultura lontana e sconosciuta, quanto piuttosto per una forza ancestrale del racconto in cui sopravvivono echi mitici e suggestioni fiabesche.
Anche quando il discorso si fa più attuale, come in Pesi leggeri di Pau, assistiamo solo ad un travestimento della sconfitta intesa come condizione esistenziale, e non ad una sua sostanziale trasformazione: il film diventa la cronaca di un mondo che va scomparendo, quello della boxe, un mondo perduto di falliti e di indigenza. È solo un travestimento, appunto, ma la sensazione, l’atmosfera e la condizione umana che descrive sono sempre le stesse. E la natura austera di Banditi a Orgosolo è sostituita dalle strade deserte della tangenziale. Così, anche in Pesi leggeri lo sguardo segue sempre lo sconfitto. Lo scontro finale tra Nino, il protagonista, e Giuseppe, il più classico degli antagonisti, violento e antisociale, vede vincitore il primo, che abbiamo seguito per tutto il film. Da quel momento in poi, però, la telecamera sceglie di seguire Giuseppe e il procuratore che si occuperà di lui, i veri sconfitti del film, che non hanno e non avranno mai niente, esclusi dal mondo.
Gli sconfitti, a ciascuno dei quali è dedicato un capitolo de La vedova scalza, tutti gli sconfitti che si ritroveranno nel Giorno del giudizio, sono loro i protagonisti di queste nuove e antichissime storie di Columbu, di Sanna, di Pau, di Mereu, di Pitzianti: gli sconfitti dalla vita che nel finale di Ballo a tre passi si ritrovano nell’aldilà, tutti insieme in un sogno felliniano, come ad una festa.

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