Rai e Mediaset ai blocchi di partenza: la fiction

Settembre: riaprono le scuole, ricomincia il campionato e, per usare le parole del presidente della RAI Petruccioli, “come la stagione calcistica” riprende la programmazione delle reti televisive. Come per i club di serie A, è dunque questo il momento giusto per provare ad analizzare la nuova stagione ai blocchi di partenza. Punte di diamante (sia in termini di ascolti che di investimenti profusi) delle reti RAI e Mediaset sono le fiction. Prima, però, di addentarci nel vasto mondo del palinsesto autunno/inverno dei nostri broadcaster, pubblici e privati, è bene chiarire i parametri adottati in quest’osservazione. Pare infatti, esaminando il mondo della critica televisiva, che tutta l’analisi debba contentarsi dei contenuti veicolati dal piccolo schermo. Pochissimo spazio viene invece lasciato all’esame formale dell’intrattenimento televisivo. Forma che, al contrario, nasconde spesso l’essenza stessa di un prodotto mediatico. Scrittura e messa in scena dunque, nel caso della fiction, sono i parametri migliori per giudicarne la riuscita. Sceneggiatura, regia e fotografia i punti imprescindibili per un’accorta analisi.
Seguendo il corso cronologico di una produzione, l’idea, la struttura di base di una fiction, è data dagli script. E’ proprio in questa fase che si delineano le strutture di una serie, le trame principali e secondarie, gli intrecci e i caratteri dei personaggi. I personaggi, appunto, sono e restano uno dei punti deboli della serialità italiana. Stereotipati e convenzionali i caratteri messi in scena, che appaiono cloni di un modello di base; l’uomo con la divisa, la ragazza in lotta con il proprio amore (meglio se incinta), il cattivo dallo sguardo torvo. C.S.I. e Gill Grissom, Boston Legal e le manie di Alan Shore (James Spader fresco Emmy), House M.D. e Gregory House dimostrano come un buon personaggio sia la base per un buon serial. Personaggi, questi, con una propria statura, pieni di forze e debolezze, sfaccettature e contrasti interiori. Chi di noi saprebbe elencare le caratteristiche peculiari del Capitano Venturi (RIS) o del Capitano Traversari (Il capitano)? Nessuno. Perchè non ne hanno. Il loro mondo ruota attorno ad una serie di schemi consolidati e immutabili, di situazioni sempre uguali. Nessuno pretende le mirabolanti avventure di Heroes o la trama affascinante e indecifrabile di Lost, ma sperimentare qualche variabile renderebbe più allettante l’idea di fermarsi davanti alla televisione per una serie italiana.
Probabilmente non siamo in grado (o almeno, è quello che vogliono farci credere) di decifrare più parabole narrative, di ricomporre una linea orizzontale frastagliata, ma fra le innovazioni di Lindelof e Don Matteo ne passa di differenza. Come se non bastasse, le situazioni banali e prevedibili delle nostre fiction vengono affollate di dialoghi imbarazzanti. Anche in questo caso appare impossibile confrontare il lessico, la genialità, la complessità di un’Ally McBeal con il torpore di un Caterina e le sue figlie. Le serie italiane vengono così ad occupare una posizione ambigua, troppo costruite nella loro schematicità per essere verosimili, ma al tempo stesso troppo banali per rappresentare l’assurdo (cosa che, ad esempio, riesce benissimo a David E. Kelley).
Pur senza possedere sceneggiature straordinarie, esistono comunque serie che fanno della messa in scena la loro forza. Guardando oltreoceano, un The Shield, ad esempio, utilizza una fotografia estremamente sporca ed una regia mossa e coinvolgente per riprodurre la realtà violenta della periferia americana, mentre le gradazioni molto accentuata dei rossi, degli arancioni, dei blu di Veronica Mars, oltre a richiamare un’atmosfera da Hard Boiled, conducono lo spettatore nelle intricate vicende di Neptune stimolando il suo lato meno razionale. La televisione, infatti, come dimostrano numerosi studi scientifici, è un mezzo istintivo che non accende la parte logica del cervello. La fotografia e la regia possono dunque giocare un ruolo fondamentale nel coinvolgimento dell’audience. Fotografia e regia debbono essere, per questo, al servizio della narrazione, aggiungendo e migliorando l’empatia fra racconto e spettatore. Ben lo sanno i producer americani che, sempre più spesso, affidano la direzione a registi di fama (come dimostra l’episodio pilota di Shark diretto da Spike Lee). Intere saghe, come quella di ER (che ha avuto con Motherhood (#1.24), nella prima stagione, la guest director di Tarantino), palesano quanto una straordinaria messa in scena possa, anche negl’anni, far la fortuna di una serie.
Da noi in Italia, però, la situazione è ben più arretrata. Il regista appare solo come tecnico al libro paga dei produttori e il direttore della fotografia sembra, spesso, non pervenuto. Quale empatia può provocare la piatta luce dei nostri serial? Che caratteristiche può rievocare nella mente se rimane totalmente identica in Vivere (soap) e in Gente di mare? Va dato atto agli sforzi di alcune produzioni di creare, anche da noi, la cultura della televisione di qualità cinematografica. Caravaggio, con la fotografia di Storaro, ne è un esempio (seppur con i suoi limiti di scrittura) e i progetti di Sky, affidati a Salvatores e Placido, sembrano immettersi sulla buona strada. Per ora, però, sono solo poche gocce nel mare, pochi fuoriclasse (o discreti giocatori) in un campionato di rincalzi.
