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Ritratti - Anne Brochet, quasi una lettera d’amore

Pubblicato il 18 aprile 2002 da Alessandro Borri


Ritratti - Anne Brochet, quasi una lettera d'amore

Ogni tanto vien voglia di spedire una lettera d’amore, che scannerizzi volti e gesti, momenti estatici di un corpo d’attore nel tempo, nelle vibrazioni della recezione. Così anche quel pasticcio saturo di metaforiche distorsioni spazio-temporali che è Dust viene in aiuto se dà la possibilità di parlare di un’attrice che in Italia si avvista raramente come Anne Brochet. Incastrata in un ruolo che dovrebbe rammentare quello di Isabelle Huppert ne I cancelli del cielo (prostituta contesa tra amici-rivali in Cimino, fratelli-coltelli in Manchewski), e che scivola poi - date distanza e morte - nella percezione memoriale ed onirica; consentendo anche a noi di astrarci dal “Guernica macedone” (l’hanno definito così, mica è colpa nostra) e ripensare a quando per la prima volta fummo folgorati dall’apparizione di Anne, di quei lineamenti alteri in cui gli aristocratici tratti francesi si estremizzano fino all’astrazione intellettuale. Era il pomposo ma indubbiamente cattivante Cyrano de Bergerac di Rappenau, e il simbolo per eccellenza della bellezza transalpina, Rossana, si incarnava proprio nei lineamenti quasi troppo perfetti della Brochet, esaltati da un naso regale nel dare misura alle ampie traiettorie di bocca, occhi, zigomi, fronte. Ma la scena dove Anne rifulgeva maggiormente ai nostri occhi era quella dell’atto quarto, dove piombava nel campo francese, nel bel mezzo della battaglia, vestita in abiti maschili. Non esitiamo a confessare che per un lungo periodo quell’immagine riempì le nostre inespresse fantasie, quanto in precedenza l’incontro di Humphrey Bogart e Dorothy Malone nella libreria de Il grande sonno, quanto successivamente l’aggiustarsi i capelli di Anita Mui in Rouge, per completare un viaggio della seduzione da Ovest a Est. Trovavo nella Brochet un’alternativa affatto peculiare tra le rappresentanti di una stagione molto fortunata del divismo francese, quella delle eredi di Huppert e Adjani: Binoche e Beart, Jacob e Delpy. Un muoversi laterale, di nicchia, forse di più insinuante malia (simile non a caso a quella di un’altra desaparecida, la kieslovskiana Jacob). Avrei rincontrato Anne, lasciata nel suo convento a piangere la morte di Cyrano, in vesti altrettanto monacali, come figlia dell’ascetico violista Saint-Colombe in Tutte le mattine del mondo di Alain Corneau: destinata, tanto per rimanere nel campo della rinuncia giansenista, a seduzione e morte. Un salto nella volitività e nel magma incandescente della condizione femminile lo avrebbe invece compiuto con la sua interpretazione più importante, quella di Madame Germaine De Stael in Du fond du coeur, capolavoro ahimè misconosciuto di Jacques Doillon. L’eroina che piange, seduce, comanda, supplica, prende e perde il controllo delle dinamiche sentimentali negli sfiancanti piani-sequenza della camera digitale è indimenticabile, iconizzata in magnifici cappelli e completi stile Impero. Dopo questo apice, il vuoto. Teatro, film mai usciti da queste parti. Dust ci restituisce Anne con qualche ruga in più, ma anche con l’espressione piena di una fisicità altrove trattenuta. Prolungando l’incanto.

[Aprile 2002]


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