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Ritratti - Clint Eastwood, 80 anni di dolce violenza

Pubblicato il 31 maggio 2010 da Donato Guida


Ritratti - Clint Eastwood, 80 anni di dolce violenza

Il 1964 è sicuramente l’anno di nascita di uno dei più grandi miti western che la storia del cinema ricordi: gli spettatori riempiono le sale per assistere al film Per un pugno di dollari, opera con la quale il romano Sergio Leone apre la strada allo spaghetti-western, uno dei generi cinematografici più famosi al mondo. Al di là della bravura registica dell’autore (sulla quale, oramai, qualsiasi elogio sembrerebbe futile e ripetitivo), la grandezza dell’opera va ricercata anche nella grande interpretazione del suo protagonista: quell’”Uomo senza nome” che, ammazzando Ramòn Rojo, riporta la calma e la giustizia a San Miguel e, successivamente, va via verso il nulla, da dove era arrivato. Il trentaquattrenne Clint Eastwood – lineamenti scavati nella pietra e occhi impenetrabili che fanno da contorno a quell’espressione glaciale tanto amata dagli spettatori cinematografici – dà vita ad un personaggio unico e inimitabile, capace di rendere ancora più affascinante l’opera di Leone – primo capitolo di una delle trilogie più famose, quella “del dollaro”, comprendente i successivi Per qualche dollaro in più (1965) e Il buono, il brutto, il cattivo (1966).
È trascorso quasi mezzo secolo dal “reale” battesimo cinematografico dell’impermeabile attore californiano e in pochi, nel vedere quel ragazzone americano – la cui espressione restava sempre la stessa per l’intera durata del film (nonché dell’intera trilogia) –, avrebbero pensato che sarebbe diventato uno dei più apprezzati attori e registi che il mondo avesse mai conosciuto. Un autore che ha fatto della violenza e della sensibilità i due punti fondamentali non solo del suo cinema, ma anche della sua filosofia di vita. Violenza e sensibilità prese a dosi eguali, mescolate al fine di riportare sullo schermo, fedelmente, ciò che accade nella vita di ogni uomo… ogni giorno. Una durezza che Eastwood non si è risparmiato di vivere sulla sua pelle, al di fuori del set, per gran parte di una vita che oggi, 31 maggio 2010, tocca la veneranda età di 80 anni; sedici lustri coronati da enormi successi, quasi nessuna sconfitta, numerosi premi e riconoscimenti. Oltre ad essere ancora uno dei migliori attori in circolazione, negli ultimi anni è divenuto un vero e proprio Re Mida del cinema, poiché ogni sua opera diviene una miniera d’oro per Hollywood (nonché una perla donata agli spettatori): soprattutto dal 2003, anno di Mystic river, il regista di San Francisco non ha più sbagliato un colpo, realizzando praticamente un film ogni anno – opere che difficilmente eludono l’aggettivo “capolavoro”. Ma Eastwood non è solo un bravo attore o un grande regista: stiamo parlando di un uomo che, grazie a ruoli che gli sono stati affidati e a lavori da lui realizzati, è divenuto, oltre che punto di riferimento, una leggenda vivente; come quella, metropolitana, che vorrebbe farcelo vedere come il figlio naturale di Stan Laurel, non solo per una sua somiglianza somatica, ma anche perché la coincidenza ha voluto che la sua data di nascita corrispondesse a quello di uno dei figli di Stanlio, morto poche settimane dopo aver visto la luce. Eastwood è divenuto, negli anni, un mito per almeno due generazioni: nella terza parte di Ritorno al futuro di Robert Zemeckis, Marty McFly, ritrovatosi nel lontano West, alla domanda: “Come ti chiami straniero?”, risponde: “Eastwood, Clint Eastwood!”; non solo, ma quando successivamente è costretto ad affrontare in duello lo scellerato Biff “Cane pazzo” Tannen, nasconde una lamiera sotto il poncho, utilizzandola come se fosse un giubbotto antiproiettile: stesso trucco usato dal “pistolero senza nome” nel leoniano Per un pugno di dollari. Tutto questo dimostra come la figura di Eastwood sia diventata un’icona nella quale focalizzare innumerevoli fantasie; una leggenda che, dagli anni ’60 ad oggi, continua ad affascinare intere generazioni. Non è un caso che la rock band virtuale inglese, i Gorillaz, si siano ispirati a lui per la loro più famosa canzone: Clint Eastwood, appunto! – tra l’altro, altra canzone dello stesso gruppo è Dirty Harry, giusto per non dimenticare l’ispettore Callaghan, altro personaggio storico interpretato dall’attore/regista californiano.
Nato a San Francisco nel 1930, padre operaio di una fabbrica d’acciaio e madre casalinga, Eastwood è di origini europee (inglesi, scozzesi e olandesi): dopo aver intrapreso, senza mai terminarli, studi di economia al Los Angeles College, si arruola nell’esercito degli Stati Uniti pensando ad una possibile carriera militare. Durante questo periodo accade un avvenimento che, a grandi linee, potrebbe già far capire quello che sarà il modus vivendi dell’attore e regista (ovvero, il coraggio); durante la guerra di Corea, Eastwood si ritrova su un aereo militare al quale esplode il portellone, con il rischio di risucchiare fuori tutti: il freddo californiano, senza farsi prendere dal panico, trancia un cavo e, utilizzandolo come lazzo, afferra la maniglia del portellone e lo richiude. L’aereo precipita lo stesso in mare, anche se poi Eastwood riuscirà a salvarsi a nuoto. Prima di divenire attore, si impegna nei più diversi e disparati lavori: da boscaiolo a conducente ti camion, bagnino, impiegato amministrativo, boscaiolo, guardiano notturno, nonché pianista e trombettista jazz (esperienza, quest’ultima, che ricorrerà nei suoi successivi lavori cinematografici, per i quali firmerà le musiche).
Nel mondo del cinema Eastwood ci arriva per caso (fortunatamente!): convinto da alcuni suoi amici a fare un provino per la Universal, la sua gavetta prendo il via in alcuni horror di serie b, come i due film di Jack Arnold, La vendetta del mostro (nel quale interpreta un semplice assistente di un laboratorio scientifico) e Tarantola (qui è un pilota di jet), entrambi del 1955. La sua carriera sembra prendere una piega positiva quando viene scelto per essere il protagonista della lunga serie (durata 9 anni) di Rawhide: nel ruolo di Rowdy Yates riesce ad imporsi all’attenzione del pubblico e della critica e, in breve tempo, la sua carriera volerà fino a raggiungere i grandi successi che, oggi, il mondo intero conosce.
“Mi piace Clint Eastwood perché è un attore che ha solo due espressioni: una con il cappello e una senza il cappello”: una delle più famose frasi indirizzate all’attore californiano non poteva che arrivare da Sergio Leone, il vero padre cinematografico di Eastwood: scegliendolo come protagonista per il suo Per un pugno di dollari, nonché per i due successivi capitoli della trilogia del dollaro (Per qualche dollaro in più e Il buono, il brutto e il cattivo), Leone aiuta a plasmare la leggenda, quell’”Uomo senza nome” che difficilmente Eastwood riuscirà a far dimenticare: occhi di ghiaccio, ghigno irriverente seminascosto dal sempre presente sigaro, l’immancabile poncho che lo stesso attore utilizzerà per tutti e tre i film (senza mai lavarlo) e le sue battute ficcanti e taglienti, consacreranno Eastwood come il miglior attore di film western di tutti i tempi. Gli anni passati con Leone però, oltre che migliorare la propria carriera, fanno sì che l’attore possa carpire i segreti della regia di Leone e conservarli avidamente. L’autore californiano riesce a rielaborare in ogni film che lo vede impegnato non solo come attore, ma anche come regista, la lezione del regista romano, per ridarla, successivamente, in maniera del tutto personale. Al di là della tecnica registica prettamente leoniana – ferma e solida – e delle battute taglienti e graffianti che utilizzano i duri personaggi che soventemente interpreta, ciò che Eastwood ruba ai due autori è quelle realistica visione violenta del mondo che circonda i suoi personaggi; una violenza che raggiungerà il culmine nel primo acclamato film dell’autore Gli spietati (1992) – film, non a caso, “dedicato a Sergio e Don”, così come si legge nei titoli di coda.
Con un fisico asciutto e scattante, nonché grazie al grande successo ottenuto con Sergio Leone, Eastwood sembra non potersi più sbarazzare dei ruoli di attore western e anche dei film di guerra che lo vedranno ottimamente utilizzato, come il caso di Dove osano le aquile (1969) di Brian Hutton. Il decennio ’70 è sicuramente il migliore per Eastwood che, oltre ad esordire alla regia con il film Brivido nella notte (1971) – anche se il vero e proprio esordio avviene con il documentario The Beguiled: The storyteller – segna anche uno tra i migliori binomi attore-regista che Hollywood abbia conosciuto: Don Siegel, infatti, lo vuole per il suo film L’uomo dalla cravatta di cuoio (1971); ma i due sono famosi per ben altri film: non parliamo solo dello stupendo Fuga da Alcatraz (1979), ma del più famoso Dirty Harry (1971), il quale consegna ad Eastwood un altro personaggio violento, memorabile ed immortale: quell’ispettore Callaghan che lo vedrà impegnato per tre sequel dopo il grande primo successo de Il caso Scorpio.
Sergio Leone e Don Siegel sono sicuramente i due registi che hanno saputo sfruttare appieno le potenzialità dell’attore (oltre loro, solo l’Eastwood regista è stato capace di questo): coloro i quali hanno portato il giovane californiano verso un successo mondiale, nonché insegnargli da che prospettiva guardare il mondo: una visione violenta e sensibile in egual misura,così come saranno i suoi successivi film da regista. Nella sua lunga carriera, infatti, Eastwood è riuscito a creare dei film violenti come Gli spietati (vincitore di quattro premi Oscar, tra cui miglior film e miglior regia) ed alternarli con opere quali Un mondo perfetto (1993) o I ponti di Madison County (1995), nei quali viene fuori tutta la sensibilità di un regista che, anche se dalla scorza dura e esteriormente violento e brutale, nasconde, in realtà, una grande fiducia nell’essere umano e nelle debolezze positive degli uomini. Violenza e sensibilità sempre utilizzate in opere dove Eastwood inserisce le passioni della sua vita: è il caso di uno dei suoi migliori film, Bird (1988), che racconta la vita del jazzista Charlie Parker, considerato da Eastwood uno dei migliori sassofonisti, nonché genio rivoluzionario nell’ambito jazz (lo stesso regista, come detto in precedenza, suona il pianoforte la tromba e ama la musica jazz, nonché il blues; amore che lo porterà anche a firmare uno degli episodi di The blues, dal titolo Piano Blues). Il film, più che un biopic sulla vita di Charlie “Bird” Parker, racconta la violenza e la distruzione della vita di un uomo che sperpera il proprio denaro: un genio musicale sempre in lotta con dei personali fantasmi. Ancora violenza, ancora sensibilità.
Queste due tematiche sono state, negli anni, sviluppate e raffinate dal regista, tanto che, dal 2003, anno di Mystic River, l’autore sembra aver scoperto il miracoloso segreto per creare un capolavoro ogni qual volta lo si vuole. Sarebbe alquanto improponibile provare a realizzare una “sintesi della violenza” basandosi sull’intera filmografia dell’autore – più di una trentina le opere realizzate; molto più facile e significativo, invece, provarci sulla base di quelle opere – partendo da Mystic river per giungere a Gran Torino – che, a partire dall’inizio del nuovo secolo, lo hanno riportato sulla scia dei grandi autori americani. La disperazione di un padre che, dopo aver perso la figlia, uccisa brutalmente dallo sconsiderato “gioco” di due ragazzini, cerca di farsi giustizia da solo, non confidando nell’aiuto della polizia; il dolore di un intristito allenatore di boxe che, dopo aver cresciuto la sua allieva come una figlia, è costretto a spegnere la sua vita per non vederla più soffrire in un letto d’ospedale; il coraggio di una giovane madre costretta a combattere contro l’intera forza di polizia, rea di non aver fatto nulla per cercare il suo bambino, scomparso in circostanze misteriose e che, addirittura, impone alla stessa donna di accettare un figlio non suo pur di far elevare, agli occhi della stampa, la bravura delle stesse forze dell’ordine; la sensibilità di un vecchio e deluso reduce della guerra di Corea che, pur di difendere i nuovi amici e vicini asiatici dalla brutalità dei loro stessi connazionali, decide di farsi ammazzare, così da pagare per le sue colpe militaresche.
La violenza nei film di Eastwood non è solo relegata ai personaggi, ma è una brutalità che aleggia intorno all’opera stessa e che fa parte della stessa condizione dell’uomo. Una violenza che ne crea altra e che porta a un consequenziale incattivimento.
La visione di Eastwood è realistica, nell’osservazione di qualsiasi angolazione del mondo. La violenza che ne scaturisce è frutto di un inasprimento dello stesso individuo nei confronti dell’altro: cioè che viene fuori dalle opere dell’autore californiano è che, col passare del tempo, la brutalità ha preso il sopravvento sulle buone intenzioni; a questo fa eco il carattere emotivo di un uomo che, nel presentare la cattiveria sullo schermo, la filtra attraverso i suoi occhi sensibili ma, allo stesso tempo, graffianti. Eastwood non è un moralizzatore, non esalta né condanna la brutalità moderna: la mostra così com’è, tracciando nell’animo dello spettatore un sentiero di angoscia, rabbia e vergogna.
Quasi mezzo secolo è trascorso dalla comparsa sullo schermo di quell’uomo senza nome che affascinava gli spettatori, impaurendoli nel momento in cui essi immaginavano d’incontrarlo sul loro cammino; quasi cinquant’anni che hanno avuto il merito di forgiare il carattere di Eastwood, sensibile e brutale al contempo, e anche di affinare, oltre la sua tecnica registica, il suo sguardo sul mondo: uno sguardo impenetrabile che osserva la violenza degli uomini e la sfida, battendola quasi sempre.
E, finalmente, tolto il poncho texano, sotto il quale nascondeva la fondina da poliziotto, l’affascinante settantanovenne può mostrarsi per ciò che è realmente: uomo fiero e onesto che ama gli uomini, lasciandosi però un margine di diffidenza, sempre in attesa che nuova violenza possa scoppiare, così da combatterla a suon di freddure di sguardi e battute taglienti.
Oggi, 31 maggio 2010, Clint Eastwood compie 80 anni: da quello che si dice pare che abbia chiesto alla moglie di non organizzare nessun tipo di festa, brindando con un semplice bicchiere di vino. Almeno per una volta tra violenza e sensibilità, nella sua vita privata, il regista sembra orientato a scegliere la seconda alternativa: sempre in attesa, però, che la violenza dell’uomo possa suggerirgli l’idea per un nuovo capolavoro.


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