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Ritratti - Frammenti di Altman: Volti d’infinito, ritagli di nulla

Pubblicato il 6 marzo 2006 da Fabrizio Croce


Ritratti - Frammenti di Altman: Volti d'infinito, ritagli di nulla

Se si dovesse pensare ad un’immagine riassuntiva del percorso anomalo e isolato compiuto da Robert Altman all’interno del cinema americano degli ultimi cinquant’anni - da The Delinquents, 1955 a The Company, 2004 - questa si infrangerebbe e decomporrebbe inevitabilmente contro un muro di facce, suoni, vibrazioni talmente umane, fragili e vulnerabili da risultare incontenibili e irriducibili alla fruizione di una sola inquadratura. La precisione nel mettere in scena il grande, variopinto carrozzone su cui montano, disordinati e scapigliati, uomini e donne intrappolati in contesti sociali spietatamente rigidi e vincolanti non rende però completa giustizia all’ormai ottantenne cineasta di Kansas City, perché lo vincola al semplice ruolo di fustigatore dei costumi corrotti e della morale prostituita ed ipocrita di un paese, l’America, contro il quale, in particolar modo negli anni settanta, era diventato fin troppo facile e limitante accanirsi (ben più difficile sarebbe stato proseguire negli edonisti e rilassati anni ottanta).
Bob Altman è andato ben oltre la figura di disturbatore, provocatore irriverente, cavallo sciolto di un’industria, quella cinematografica in generale e hollywoodiana in particolare, cui fa comodo identificare il nemico per ghettizzarlo ed isolarlo. Pur restando orgogliosamente e sarcasticamente contro qualsiasi tipo di sistema che limitasse la sua libertà di espressione in quanto artista e di pensiero in quanto uomo, Altman si è calato in primis dentro la pelle del linguaggio cinematografico, sovvertendone dall’interno le regole, i codici, le strutture pachidermiche, anzi ha fatto collassare il pachiderma e lo ha sezionato davanti agli occhi di tutti, dei dirigenti delle Major (si pensi che ha lavorato con 20th Century Fox, Warner Bros, M.G.M prima di mettersi in proprio e fondare la Lion’s Gate nel 1973), dello stordito pubblico americano e del più disincantato pubblico europeo, spiazzando l’uno e l’altro per questa sua specifica qualità di essere profondamente nato a Kansas City e di conservarne una certa mentalità naif, e di possedere parallelamente tutta la complessità e lo spessore di una capitale del Vecchio Continente.
Segnato dall’ingenuità e dalla consapevolezza, lo sguardo altmaniano ha mantenuto la duplice chiave di lettura ogni volta che ha inteso svelare i mascheramenti esistenziali ancor prima dei meccanismi e delle sovrastrutture della società. Il ricordo più nitido e toccate rimane probabilmente quel close-up sul volto di Sterling Hayden, lucente corpo attoriale ri-scritto e re-inventato, nel ruolo dello scrittore crepuscolare e suicida de Il lungo addio, una delle riflessioni e delle ricerche più struggenti ed amare che il cinema ci abbia regalato sul conflitto tra lo smarrimento dell’identità personale e la fittizia, illusoria realtà esteriore, sapientemente camuffata con l’abito della detective story, seppur prosciugata dai luoghi canonici e dalla progressione drammatica del genere per far risultare con più potenza i lineamenti del tempo e della vita. A volte il fastidio e l’insostenibilità che viene dal cinema di Altman sono strettamente legati all’utilizzo che fa della mdp, a questo suo renderla più che un bisturi da chirurgo una macchina trivellatrice che scava in maniera invasiva, violenta, vitale, mostra le cose nella loro sostanzialità e ci mette in contatto con una tangibilità carnale delle emozioni. Non c’è filtro in un altro memorabile close-up, quello che un Altman commosso regala alla secolare e storicizzata icona del cinema, Lilian Gish, che fa la madre morente in Un matrimonio e della quale sentiamo tutto il lento, dignitoso spegnersi all’interno di una sequenza dove si sovrappongono il principio e il termine dell’esistenza, una sensazione che riempie lo sguardo ed il cuore esattamente come il faccione appesantito, rugoso, vibrante della Gish riempe lo schermo.
Sommando tutti questi momenti di sospensione, di apertura, di spostamento della prospettiva dal microcosmo delle vicende degli uomini al macrocosmo del fluire del mondo interiore dell’individuo, il cinema di Bob Altman può definirsi una sorta di movimento spaziale dalle dimensioni del corpo e della mente verso paesaggi illusori, fantasmagorici, artefatti, spesso frutto di macchinazioni e trucchi che disumanizzano e trasformano i personaggi altmaniani in burattini lobotomizzati, senza più la capacità di opporre resistenza. Il Brewster McCloud di Anche gli uccelli uccidono vedrà il suo sogno impossibile di assumere le sembianze di un volatile, e quindi la sua libertà, abbattuto dalle risate e dagli applausi del pubblico del circo; La Cathy (Susannah York) di Images, il cui crollo psichico ed emotivo coinciderà con l’inizio della percezione visivo-sonora deviante e disturbata degli spazi familiari (la casa, la villa di campagna, la foresta); L’emblematica Barbara Jean di Nashville sarà invece costretta a sacrificare l’identità di ragazzina di provincia per immolarsi sull’altare della mitologia della musica country, in un processo dove, come mai altrove, l’iconoclasta Bob concentrerà innocenza e ambiguità, uccidendo, in una scelta dettata non dal cinismo bensì dalla disperazione e dalla rabbia, per ben due volte la sua eroina: La prima volta davanti al pubblico adorante che rivelerà tutta la sua ferocia scagliandosi in fischi e lazzi contro le imbarazzanti e grottesche confessioni personali della loro beniamina detronizzatasi dallo status di simulacro divistico per diventare una piccola, ridicola donna; La seconda volta saranno le pallottole reali di un ammiratore ossessionato da quel simulacro a spezzare il legame con la società dello spettacolo, rendendo paradossalmente a Barbara Jean la sua realtà fisica fatta di carne e di sangue in stridente contrasto con la falsità urlata e palese del teatro dell’esecuzione mediatici (una riproduzione del Partenone di Atene). Indignazione per la cupidigia, la stupidità, la violenza, l’egoismo; Commozione trattenuta per tutto ciò che rivela un segno di umanità, di comunicazione, di solidarietà.
Anche se con un disincanto in alcuni casi mortale, funereo e cupo e in altri liberatorio, rabbioso e gioiosamente provocatorio, Altman ha pessimisticamente individuato nell’habitat in cui gli esseri umani scelgono di aggregarsi e di vivere l’espressione più diretta e immediata della vittoria dell’abrutimento, dell’alienazione, della psicosi e della paura e quando la sua mdp ha colto un barlume di luce, di speranza o semplicemente di accorata malinconia in uno dei numerosi volti che hanno popolato le sue visioni l’ha catturato e l’ha fatto proprio, condividendone con chi è chiamato a guardare la segreta, sfuggente bellezza.


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