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Ritratti - From Julia to Julia - La gloriosa carriera di Meryl Streep

Pubblicato il 6 novembre 2009 da Lorenzo Vincenti


Ritratti - From Julia to Julia - La gloriosa carriera di Meryl Streep

Il ricco contesto di una metropoli è solito offrire ai suoi numerosi e diversi abitanti una vastità di eventi tale soddisfare le esigenze e le richieste di ogni singolo cittadino. Pensate a quanto possa regalare in tal senso una metropoli effervescente come New York, ad esempio, che nel suo vasto territorio è in grado ogni sera di ospitare contemporaneamente qualsiasi tipo di avvenimento culturale, sportivo, artistico o mondano. Provate ora ad immaginare di poter magicamente andare indietro nel tempo e trovarvi come d’incanto lì, nella Grande Mela. In un ottobre anonimo di un lontano 1977. Chiunque, appassionato come il sottoscritto di cinema e soccer, avrebbe potuto scegliere nella serata autunnale del primo giorno del mese di salutare il mito di Pelè davanti agli 80.000 del Giants Stadium e magari nel frattempo programmare di andare a vedere, il giorno successivo, Julia, il nuovo lavoro del grande vecchio del cinema classico americano Fred Zinnemann, in uscita nelle sale cittadine proprio in quei giorni. Probabilmente avremmo potuto insieme recitare frasi del tipo: “Certo, non sarà la migliore opera di Zinnemann” oppure “Il film di un così grande regista, per di più accompagnato da Vanessa Redgrave e Jane Fonda non posso proprio perderlo”. Ma quello che, né io né voi, avremmo mai potuto pronunciare in quella lontana e immaginifica serata d’ottobre è in realtà ciò che nessuno poteva ancora prevedere all’epoca ovvero: “Non posso perdere Julia perché questo è il film che inaugurerà la carriera cinematografica della più grande attrice dell’epoca prossima, colei che nei tre decenni successivi a questo 2 Ottobre 1977 sbaraglierà ogni concorrenza, raggiungendo le vette dell’olimpo cinematografico ed affermando se stessa come la regina incontrastata tra le attrici contemporanee. Non posso perdere Julia perché introdurrà al mondo intero il mito della grande Meryl Streep”.

32 anni di carriera sensazionale cominciati con una Julia e approdati ad un’altra Julia. Così si potrebbe sintetizzare il percorso sin qui compiuto da Mary Louise Streep, interprete di straordinario talento partita dall’esiguità di due striminzite scene di un film classico americano (in cui la Julia del titolo non era che un miraggio per una giovane Meryl) per approdare oggi, a distanza di anni, al presenzialismo frizzante di Julia Child, personaggio del recente film di Nora Ephron Julie & Julia in cui, tra ricette, fornelli e l’interpretazione spumeggiante della più famosa cuoca d’America, la Streep porta (per ora) a compimento la sua scalata alle vette dell’immortalità artistica. Ha infatti tutta l’aria della chiusura di un cerchio la recente performance dell’attrice statunitense, per il semplice fatto che l’impossibilità all’epoca di interpretare la prima Julia (ad appannaggio di una ben più quotata Vanessa Redgrave) viene oggi definitivamente esorcizzata, spazzata via dalla potenza fisica ed espressiva di una attrice capace ormai di fagocitare l’odierna Julia, di meritarla, di farla propria, di renderla unica distruggendo come se nulla fosse le difficoltà presentate dall’interpretazione di un ruolo del genere. E’ come se il capo e la coda di una lunga e affascinante carriera divenissero all’improvviso compatibili tra loro e fossero disposte a toccarsi per dare vita ad un cerchio virtuale pronto ad accogliere al proprio interno l’intero cosmo streepiano, le sue infinite qualità recitative, l’esperienza iniziale nei teatri newyorkesi, le oltre quaranta interpretazioni all’attivo, la “stellona” sulla walk of fame e i suoi innumerevoli riconoscimenti, compreso il recente Marc’Aurelio alla carriera consegnatole in occasione dell’ultima edizione del Festival Internazionale del Film di Roma. Un premio simbolico che oltre ad aver il suo naturale compito omaggiante richiama subito alla mente le quattordici nomination agli Oscar sin qui collezionate dall’attrice, un record difficilmente eguagliabile (ma che lei maschera con la sua proverbiale modestia e con un pizzico di amarezza: “Questo fa di me anche la più sconfitta”), le due statuette vinte negli anni iniziali, l’Orso d’argento a Berlino, il Prix al Festival di Cannes, le 22 nomination ai Globes, le 6 vittorie conseguenti e la marea di altri premi e riconoscimenti ottenuti in giro per il mondo. Qualcosa che ha dell’incredibile ma che può addirittura apparire come un fenomeno contenuto se solo ci si ferma a pensare a quanto avrebbe potuto essere più cospicuo il bottino alla luce delle precoci affermazioni ottenute agli Oscar del 1980 per Kramer contro Kramer e del 1983 per La scelta di Sophie, rispettivamente quarto e ottavo film dell’allora giovane Streep.

Premi a parte, lo scintillante inizio di Meryl serve a dimostrare quanto in realtà il suo talento, neanche nelle battute iniziali della carriera, sia stato mai messo in discussione dal fruitore di turno. Che sia questo un membro della critica internazionale, unita come non mai nel ritenere sin dal principio l’istrionismo e la meticolosità della sua arte non come il frutto di una metodica applicazione dei tecnicismi teatrali bensì come il segnale più concreto di una predisposizione talentuosa; o che sia il giudizio scaturito dal consueto pubblico pagante, altrettanto puntuale nel cogliere i virtuosismi della recitazione streepiana ancor prima che essi venissero determinati e classificati dagli addetti ai lavori, non ha importanza alcuna. Il risultato non cambia e il verdetto dice comunque “perfezione”, anche al cospetto dei passaggi a vuoto, dei momenti di stasi, della ripetitività dei ruoli o del manierismo di tanto in tanto imputatole da qualcuno. Puntualizzazioni queste ultime, che hanno tuttavia portato la Streep a prediligere nel tempo l’opinione del pubblico più semplice, capace a quanto sembra di entrare in sintonia con il low profile di una donna normale e così poco incline alle regole invasive e presenzialiste dello star system. Lo stesso pubblico che le ha dimostrato nel corso dell’intera carriera una fedeltà incrollabile, altrimenti difficile da donare a chi di mestiere è abituato ad indossare maschere, che sin dal principio ha dato risalto alle sue istrioniche doti e che si è mostrato attento alle intime capacità di un’artista sempre in grado di aderire perfettamente al ruolo assegnatole, di restituire la complessità dei caratteri forti e le diversità psicofisiche dei suoi tanti personaggi.

Lo scorcio dei ’70 che divide l’esordio sul grande schermo dal decennio della consacrazione serve così alla debuttante Streep per conoscere quel mondo, per entrarvi in maniera fragorosa imponendo senza remora alcuna le linee particolari del suo volto e i volti particolari dei suoi tipi, le movenze, i suoni delle sue donne, le caratterizzazioni forti di tipologie femminili fino a quel momento non proprio gratificate dal grande schermo. Rappresentazioni dietro le quali si nasconde la rincorsa incessante all’emancipazione dell’epoca moderna e la necessità di una donna protagonista. Sempre più padrona della propria vita e sempre più consapevole dei radicali cambiamenti che l’aspettano. Da questo nascono le grandi figure della prima Streep, da questa spinta intima nasce la Linda de Il Cacciatore, ad esempio, giovane donna dal volto delicato e dalla voce soffice ma forte (tanto forte da intonare con orgoglio il simbolico canto finale), la libertina Jill di Manhattan, lesbica irrequieta dedita allo sputtanamento continuo della figura maschile (se tale può essere definito Isaac – Woody Allen – Davis), la Karen Traynor di La seduzione del potere, avvocatessa affascinante simbolo della crescente crisi nell’istituzione familiare contemporanea e soprattutto la Joanna di Kramer contro Kramer, mamma distratta e poi redenta, la cui interpretazione centellinata ma magistrale oltrepassa la crisi raccontata nel film precedente per segnalare il superamento definitivo dell’istituzione familiare classica. Quattro straordinarie perle con cui la Streep costruisce le basi di un mito (arrivano i premi) e, quel che più conta, comincia a disegnare i connotati di un metodo artistico preciso, basato sulla maniacale cura dei particolari e sullo studio approfondito del personaggio.

Anni ’80

Oltre ai primi successi, gli anni dell’affermazione coincidono anche con quelli di una instabilità privata dapprima purtroppo caratterizzata dalla scomparsa dell’attore compagno John Cazale e poi fortunatamente allietata dall’arrivo di un nuovo partner, lo scultore Don Gummer il quale la sposerà di lì a poco e le regalerà negli anni la bellezza di quattro figli. Superati gli scompensi, Meryl si getta così negli ’80 carica di voglia e pronta a cambiare marcia rispetto al suo andamento iniziale. Questo avviene non tanto nel campo delle storie o dei ruoli ma più che altro nella gamma dei livelli espressivi utilizzati. Comincia a sperimentare qualcosa di diverso l’attrice, azzardando esplorazioni molto più particolareggiate del carattere umano e sperimentando diversi stili recitativi. Il decennio si apre proprio con la migliore carta messa a sua disposizione, un duplice ruolo ne La donna del tenente francese di Karel Reisz in cui la Streep si rivela più che mai straordinaria nel dare corpo e voce (differenti) a due donne simili ma distanti. Più che altro due facce della stessa donna. Il risultato merita di essere ricordato non solo per la concreta difficoltà ma anche e soprattutto per la splendida profondità dei suoi due personaggi, per l’equilibrio tra le parti e per una prima, vera importante costruzione del proprio lavoro. Un intervento diretto che si ripete anche per La scelta di Sophie di Alan J. Pakula, film non perfetto ma che mette in mostra un interpretazione eccezionale dell’attrice, un lavoro curato, partecipativo, struggente quasi quanto la drammaticità del ruolo stesso e della storia raccontata. Tocca le corde dell’anima la “polacca” Meryl, attraverso la costruzione di un accento dell’est europeo strepitoso e l’utilizzo di una gamma emozionale molto più ampia rispetto al passato. La performance non a caso le porta un meritato secondo Oscar e inaugura, nella carriera dell’attrice, una tendenza destinata di lì in poi ad essere malamente sfruttata o addirittura abusata da chi si è trovato a doverla dirigere. Insieme alla donna semplice che conosciamo, iniziano infatti a nascere proprio in questi anni quei clichè che l’accompagneranno nella carriera e che la renderanno l’attrice struggente per antonomasia, l’artista da tutti riconosciuta come la regina della lacrima, colei che sa piangere davanti alla mdp e che è in grado facilmente di commuovere lo spettatore con storie intense, romantiche o toccanti, con ruoli talmente normali da apparire talvolta come le proiezioni della semplice “vicina di casa”. E’ qui che forse comincia a palesarsi anche un certo manierismo nell’arte della Streep, una costanza eccessiva delle tonalità utilizzate, una applicazione talvolta debordante, che in certe occasioni la portano anche ad eccedere nella performance e ad ostentare troppo le doti della sua tecnica recitativa. La bravura comunque non manca e la sua preparazione, grazie a personaggi diversi e sempre più particolari, continua ad affinarsi costantemente. Le esperienze di Silkwood, Innamorarsi e La mia Africa servono principalmente a questo, a dare sfoggio continuo dei suoi mezzi strepitosi oltre che a portare ovviamente in dote i risultati di un successo stratosferico, sempre più dilagante. Tre film diversi tra loro ma allo stesso modo densi di emozione, lacrime e facili sentimentalismi ai quali, per completezza d’informazione, è doveroso accostare anche la gioiosa vivacità della Rachel di Heartburn (primo sussulto di leggerezza nella carriera della Streep) e l’insipida sterilità dei ruoli ricoperti in Plenty, Un grido nella notte e Ironweed, troppo manierati per apparire credibili, a tratti posticci e ridondanti per non infastidire neanche un po’ il pubblico.

Anni ‘90

Sul finire degli anni ’80, proprio nella parte conclusiva del decennio, accade però qualcosa che stravolge l’immagine dell’attrice e sovverte l’inclinazione tediosa della sua recente carriera. Come ogni grande artista che si rispetti la Streep decide infatti di azzardare una deriva comica del proprio percorso, o quanto meno di provare a relazionarsi con i ritmi, i tempi, le gestualità della comedy leggera americana. She devil in tal senso segna il salto definitivo verso un eclettismo sempre più evidente oltre che ovviamente il passaggio ad un decennio particolare, pieno di esperimenti coraggiosi ma anche ricordato purtroppo per i risultati incostanti delle performance. Lo spunto più interessante sembra fermarsi proprio alla simbolica tetralogia inaugurale in cui attraverso quattro solleticanti (o sterili) commedie, tutte di diverso tipo, (She devil – Lei, il diavolo, Cartoline dall’inferno, Prossima fermata: Paradiso e La morte ti fa bella) la Streep mette in mostra una esplosività sorprendente, una energia tutta nuova messa al servizio di storie molto più agili rispetto al passato, intraprendenti, scoppiettanti e talvolta graffianti. Sono memorabili ad esempio i duetti virtuosi con Shirley MacLaine in Cartoline dall’inferno o quelli con Goldie Hawn e Bruce Willis in La morte ti fa bella. Due opere scritte bene che mettono al servizio dell’attrice un intero sistema di codici atti a scardinare le regole convenzionali della commedia e che attraverso un linguaggio pungente ed una vena sarcastica perdurante si propongono di scoperchiare i must della plastificata società contemporanea per svelarne le fragilità e le assurdità. Qualcosa che Meryl Streep accetta facilmente a beneficio di una autoironia apprezzabilissima e di una sempre più spiccata tendenza all’autoreferenzialità dei personaggi interpretati (esplicativo in tal senso questo stralcio di dialogo tratto da Cartoline dall’inferno: “Proprio non capisco l’umorismo della tua generazione!” – “Io non ho una generazione” (risponde l’attrice) – “E allora te la dovresti procurare”.) Esperimenti a parte (c’è da considerare anche quello di The river wild, il primo ed unico action movie in carriera) il vero punto di forza del decennio è però, senza alcun dubbio l’interpretazione di Francesca Johnson, protagonista italo-americana del melodramma eastwoodiano I ponti di Madison County. In questa opera, grazie alla calibrata sceneggiatura di Richard LaGravanese e alla regia sopraffina dello stesso Eastwood, Meryl Streep può tornare alla storia d’amore senza correre il rischio di somministrare al proprio pubblico la solita minestra riscaldata. Il quid in più nell’occasione proviene dal particolare feeling raggiunto con il compagno sul set e da una maturazione artistica capace ormai di farle gestire perfettamente ogni più piccolo dettaglio del proprio corpo, dalla gestualità alla mimica fino ad arrivare alla voce, come al solito strepitosa nella restituzione dell’ennesimo accento della sua filmografia (l’italiano). “Se c’è oggi nel mondo un’attrice che merita di venir paragonata alla Magnani è proprio Meryl Streep” commentava non a caso all’indomani dell’uscita del film il compianto Tullio Kezich sulle pagine de Il corriere della sera. L’ennesimo segnale di una performance fastidiosamente perfetta e di una supremazia generale ormai evidente e difficilmente confutabile. Il ritorno alle origini, per di più così toccante e delicato, riaccende improvvisamente la voglia da parte dell’establishment hollywoodiano di rivedere la Streep alle prese con questo tipo di ruoli. Principalmente a questo elemento e ad una scarsa meticolosità nello scegliere i ruoli proposti si deve così la pletora di titoli più o meno validi caduti sul cammino dell’attrice dopo il lavoro con e per Eastwood. Ruoli non sempre completi, non sempre stimolanti, che finiscono per non soddisfare l’arte di Meryl, riportandola a volte nel limbo di una certa fastidiosa meccanicità. Irritante ad esempio è la Clara di La casa degli spiriti (ancora Kezich la definì addirittura “ridicola”), inconcludente la Lee di La stanza di Marvin, molto meglio invece nei ruoli materni di Prima e dopo e La voce dell’amore, nella zitella di Ballando a Lughnasa e nell’insegnante di violino di La musica del cuore (“E Meryl Streep aggiunge un altro personaggio coraggioso, tutto pianto-riso, reso splendidamente vivo, espressivo, sofferente, con maniera ma senza manierismi, da vera erede delle divine del cine-matriarcato” Maurizio Porro, Il corriere della sera). Film tutti uniti dall’imperfezione costante della struttura e dalla influente presenza dell’attrice, troppo spesso unico valido motivo di una visione altrimenti inutile.

Gli anni recenti

Arriva finalmente il nuovo millennio e l’attrice ormai cinquantenne comincia la sua personale battaglia con la Hollywood maschilista (mai in realtà risparmiata), a suo parere avara di ruoli per le donne cosiddette di mezz’età. Prendendo a calci i luoghi comuni dello shobiz contemporaneo, Meryl Streep decide quindi di mettersi alla guida di una virtuale battaglia costruendo mattone dopo mattone un ultima parte di carriera a dir poco scintillante, talmente vitale ancora da ricusare fermamente ogni accenno di inevitabile declino ingiustamente affibbiatole. Il nuovo millennio quindi sembra portare in dote alla Streep una consapevolezza nuova, una capacità di ripensare profondamente il proprio lavoro per metterlo finalmente al servizio di operazioni molto particolari, a volte sofisticate, altre entusiasmanti, altre ancora coraggiose. Non a caso sono necessari tre anni all’attrice per rivoluzionare la propria immagine, reinventare una carriera ormai ripetitiva e ripresentarsi sulla scena nel 2002 (La musica del cuore era del ’99) con l’interpretazione accattivante ma incompleta della scrittrice Susan ne Il ladro di Orchidee di Spike Jonze, seguita a sua volta dal cameo gradevole di Fratelli per la pelle e dalle esemplari interpretazioni prodotte per due registi bravissimi, tra i più abili che esistano nel lavoro con gli attori. Stephen Daldry, sotto le cui direttive Meryl riesce a proporre uno sfaccettato e interessantissimo personaggio di donna in bilico tra differenti tipi di amore (The Hours) e Jonathan Demme, per il quale l’attrice tocca corde mai toccate dalla sua recitazione e tira fuori una perfidia stupenda, efficace, un perfetto esercizio sul come un attore debba utilizzare i propri muscoli, i propri occhi, le infinite intonazioni della propria voce. Poco contano poi i divertissement di Lemony Snicket e Prime, soprattutto se alla porta si profila la possibilità di recitare in un film del maestro Robert Altman, per di più il suo ultimo film, l’epitaffio in note di Radio America in cui tutti gli attori coinvolti partecipano con commozione alla riuscita dell’opera e mettono anima e corpo al servizio di uno dei più grandi maestri del cinema moderno. Anima, corpo e voce nel caso di una Streep come sempre a proprio agio nella dimensione canora dell’opera. Ma il fatto eclatante del decennio ormai prossimo alla conclusione deriva come è ben noto dal clamoroso successo di due film scoppiettanti come Il diavolo veste Prada e Mamma mia!, due campioni d’incassi che riportano in auge la professionista Streep e la presentano al cospetto del pubblico come mai era stato fatto prima. Due maschere, quella della tirannica direttrice di magazine modaiolo e quella della mamma scatenata, libertina e canterina attraverso le quali finalmente Meryl sembra voler abbassare definitivamente il freno a mano e lasciarsi andare liberamente ad una leggerezza apprezzabilissima e soprattutto naturale, spontanea, istintiva. Davanti a questi risultati non può che passare sotto silenzio il restante lavoro realizzato in Dark Matter, in Un amore senza tempo, in Rendition e in Leoni per agnelli, quattro opere in cui il risultato della recitazione non appare altrettanto alto e performante di quanto descritto precedentemente e di quanto mostrato nell’ultimo film del seguente viaggio. Il Dubbio di John Patrick Shanley. Un bel film, scritto bene e predisposto ad ospitare l’ennesimo sussulto della nostra grande protagonista, qui alle prese con il carattere e le sembianze di una stratosferica, esemplare, emozionante suora bigotta. La suora Aloysius di Il Dubbio è un personaggio d’altri tempi che non trova eguali nell’ultimo decennio della Streep, una interpretazione magnifica che ci portiamo dentro, a simbolo di una intera carriera improvvisamente racchiusa nel tirato, impallidito volto di una sessantenne tutta grinta, orgoglio ed energia. Il resto è questione di attualità, di anni 70 e di Julie, di capi e di code che si toccano, è questione di cerchi che si formano e di insiemi da riempire con tutto il possibile. Anche numeri, statistiche e considerazioni a margine su di un’attrice umana e disumana allo stesso tempo, una donna umile, una professionista esemplare capace in più di trenta anni di carriera di entrare perfettamente in ogni ruolo (li ha fatti veramente tutti!), di recitare con ogni parte del corpo, di esprimersi con ogni gamma interpretativa e tipo di voce. Il resto non può che trattarsi di fenomenologia allo stato puro messa al servizio di generi cinematografici svariati (melodramma più di tutti), di tanti grandi maestri (Pollack, Altman, Pakula, Reisz, Cimino, Allen, Nichols, Eastwood, Demme) e di altrettanti talentuosi mestieranti (Daldry, Farrelly, Frankel, Schepisi, O’Connor, Jonze), tutti tesi e coinvolti in egual maniera nella costruzione del più grande mito femminile che il cinema contemporaneo possa attualmente vantare.


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