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ROMADOCFEST ATTO QUARTO

Pubblicato il 17 giugno 2005 da Edoardo Zaccagnini


ROMADOCFEST ATTO QUARTO

Dal Rialto Sant’Ambrogio alla Sala Trevi-Sordi c’è un quarto d’ora a piedi e, a parte un paio di arterie antipatiche da attraversare, una continua pittura rossa, gialla e arancio pastello rende al passante fin troppo rapido il percorso: sono gli scorci che quasi si incastrano tra i marmi anneriti e pesano sulle ondulazioni morbide che i sampietrini hanno scolpito sotto i passaggi delle auto. Rimane giusto uno spazio accaldato per i turisti colorati e sudacchiati, sorvegliati e protetti dalle Madonne che stanno sotto i balconi degli incroci. Si forma un sentiero luminoso, improfumato dalle trattorie, sicuro e rumoroso tra piante, negozietti, motorini in sosta e piccole finestre. Seguendolo si scopre l’ennesimo, minuscolo paesino a due passi da.. subito dopo il.. proprio dietro a.. E’ la Roma dei vicoli, dei romani che si affacciano distrattamente sulle comitive americane e giapponesi; delle auto di rappresentanza e delle loro sirene che esplodono sulla gente che passa. La Roma dei mestieri agonizzanti, dei “Nasoni”, delle edere aggrappate alle pareti dei palazzi, dei portoni semi-aperti su cortili interni, freschi ed eleganti. In questa Roma quà è nato quattro anni fa il romadocfest e quà continua la sua giovane e significativa vita. Lo dice la fontanella romana (Il “Nasone” appunto) che ne è diventato l’azzeccato simbolo e lo dicono i luoghi della sua vita, che sono il Rialto Sant’Ambrogio, uno spazio okkupato nel cuore del ghetto ebraico, e la sala Trevi della quarta edizione, da poco restaurata e intitolata alla figura di Alberto Sordi. Se il primo era uno spazio voluto dai giovani, lontano dalle istituzioni e dall’ufficialità, e in quanto tale conservava tutta la leggerezza, la sfrontatezza, la ricettività e la fantasia di questa fase della vita, il secondo è diventato uno dei luoghi “manifesto” della cultura (ufficiale) cittadina. Il romadocfest somiglia ad entrambi: come il Rialto denuncia un’origine anamorfica e sorprendente, lo sguardo originale e dubbioso sul presente, l’attenzione per l’insolito e il minore, l’aritmia e certo disordine, la curiosità per ciò che sta nascendo e ancora non è. Della sala trevi-Sordi, invece, questo festival conserva fortissimo il rapporto con Roma e quello con la Storia. La miracolosa possibilità di affacciarsi su un’antica città ritrovata sotto gli autobus e a fianco del Metrò può (non senza un pizzico di fantasia) somigliare alle energie che il docfest utilizza per rispolverare, riosservare e ri-costruire il passato del nostro paese. La Sala Trevi-Sordi, con la sua mitica veduta su un rudere romano e i suoi palinsesti desueti e rivelatori di anni passati e mondo, costituisce un ponte tra passato e presente in funzione di un presente per il futuro. Allo stesso modo si comporta il romadocfest quando, attraverso quarantadue ore di proiezioni divise in una media di 7 ore al giorno, ripropone materiali d’archivio e li affianca a dichiarazioni digitali che per contrasto accecano. Oggi, ieri, domani nei contenuti e nella forma, nelle stazioni e nei supermercati di questa città come per le strade di Buenos Aires, eletta a capitale ideale dell’attuale Sud America o di un Sud qualsiasi. Il Docfest conserva una sincera par-condicio tra individuo e società ed entrambi, nell’ovvia impossibilità di una netta dicotomia, mantengono lo stesso spazio: Un clown Surreale, un rivoluzionario carismatico, la cronaca di una condizione socio-economica disastrosa meritano la stesso rispetto; un contadino svizzero può proporre la sua storia senza accennare alla politica e nessun partigiano si azzarderà a ritenere inutile la sua narrazione: ogni storia è Un piccolo spettacolo, come quello di una famiglia di circensi tedeschi che gira l’Abruzzo sopra un carro di legno, prima di puntare, complice l’inossidabile spirito avventuriero e la fame di conoscenza, dritto verso l’Ungheria. I racconti per immagini “reali” alternano il proprio ritmo, la propria forma e il proprio colore, denunciando la natura l’origine e l’età di ogni produzione. Tra questi, con una forza intrinseca rafforzata da un’evidente compatibilità e da una fetente e parentale somiglianza col documentario, si infiltra quell’amore coetaneo che si chiama cinema e che non si trova affatto male tra gli anfratti e le radure del cugino che lo ospita. Due, tra i documentari di questa quarta edizione, parlano di cinema, di cinema italiano e lo fanno con il cinema. Il primo si intitola I nostri trent’anni, realizzato da Giovanna Taviani; il secondo è Fuori fuoco, di Federico Greco e Mazzino Montanari: entrambi “impuri”, ma intrisi di Storia e politica con immagini estrapolate e arricchite di nuovo significato.

[Giugno 2005]


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