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Se Rokh (Three faces)

Pubblicato il 15 maggio 2018 da Anton Giulio Onofri

VOTO:

Se Rokh (Three faces)

L’elemento che più vistosamente salta agli occhi guardando Se Rokh (Tre volti), il nuovo film di Jafar Panahi in concorso al Festival di Cannes, è il nitore, la lucentezza delle immagini di un cinema che pare retroilluminato, e che rende tattile agli occhi l’aria tersa e il brullo paesaggio di un Iran rurale, a metà fra una contemporaneità frenata dall’integralismo religioso e un’arcaicità contadina scomparsa in Occidente, essa stessa innervata di un senso del tempo, dello spazio, della terra e del cielo, del vento, delle rocce e dei prati, degli odori e dei sentori animali, che diventa finestra su un mondo a noi estraneo, o meglio cui non potremmo mai appartenere, ma che, come spesso succede ai viaggiatori (non ai turisti), incanta e seduce proprio in virtù della sua estraneità irraggiungibile. Sono quest’aria, questa terra arida, questi campi lunghi, ma pure il tono di questi dialoghi, ora drammatici ora colloquiali e cordiali, a scandire il ritmo di una vita che pare scorrere a prescindere che vi sia un cinema a catturarla. Tutto sembra durare più a lungo e con più pienezza, in questo angolo di mondo (e di cinema) lontano, lontanissimo dalla nostra prosaica quotidianità fatta di fretta e di stress, e di una libertà che qualcuno prima di noi ha conquistato con il suo sangue, ma che poi noi abbiamo provveduto a svuotare di ogni significativa utilità. Questo è senz’altro il tocco che ci resta in cuore durante e al termine della visione di Se Rokh, che poi è naturalmente un film di Jafar Panahi, dunque il consueto pamphlet nobile e lucidamente sofferto in difesa della libertà di espressione e contro la detenzione di cui il regista è vittima da anni (anche questa volta la sua poltrona alla conferenza stampa era vuota...), in questo caso meno autobiografico del solito, anzi onnicomprensivo di una visione del cinema che in Iran fu, prima della rivoluzione, collante notevole e strumento di affermazione di un’identità nazionale il cui ricordo la rivoluzione khomeinista non è riuscita a scardinare. I tre volti sono quello di una giovanissima aspirante attrice osteggiata nelle proprie ambizioni dalla famiglia che nella sequenza iniziale filma il proprio suicidio con il cellulare, quello di Behnaz Jafari, celebre interprete di popolari serie televisive, qui nel ruolo di se stessa, e quello di una ormai anziana diva dello schermo, alla quale l’attuale governo ha proibito di lavorare, e che nel film non appare mai, se non ripresa da lontano, indistinguibile. Drammi grandi e piccoli, familiari, politici, o di ordine pratico come il toro che cadendo si è rotto le ossa delle gambe e ostacola la circolazione delle rare vetture da e verso il villaggio: espressioni vitali e poetiche di un mondo fondato su codici antichi in contrasto con i dettami di una modernità forse (e si sottolinei il forse) male interpretata, che non smette di creare squilibri e incomprensioni, ma pure contatti di qualità umana fondati su una semplicità e su una schiettezza fotografate da Panahi con la dolcezza di un papà che si fa carico delle contraddizioni di una comunità di cui si sente parte integrante e che gli restituisce tutto quell’amore che lui ricambia con le sue inquadrature in campo lungo, proiettate sul tempo eterno teatro della storia immanente di un popolo che nemmeno si accorge di viverla.


CAST & CREDITS

(Se Rokh); Regia: Jafar Panahi; sceneggiatura: Jafar Panahi, Nader Saeivar; fotografia: Amin Jafari; montaggio: Mastaneh Mohajer, Panah Panahi; interpreti: Jafari Behnaz, Panahi Jafar, Rezaei Marziyeh; produzione: Jafar Panahi Film Production; origine: Iran, 2018; durata: 100’


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