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SIZWE BANZI EST MORT

Pubblicato il 10 novembre 2006 da Valentina Casadei


SIZWE BANZI EST MORT

"Scrivere sul teatro sarà ogni giorno come mettersi alla prova. Come parlarne?".

Così Georges Banu, grande studioso e critico, scrisse nel suo Peter Brook. Vers un théatre premier, opera densa e utile per la comprensione del genio inglese. E così trovandoci di fronte alla medesima grande personalità ci assale l’interrogativo: come trasmettere in poche righe, in qualche commento, l’emozione essenziale e schietta che assale lo spettatore e lo stupisce e lo commuove e lo diverte? Come trasmettere questa forza che trapassa e tramuta, che ci riporta dentro e oltre le cose? In 81 anni Peter Brook non ha mai smesso di cercare, interrogando e interrogandosi, il senso di quello che noi chiamiamo teatro, quel rituale che se riuscito cattura su di sé la sfera del magico e del sacro. La risposta la offre a tutti, ancora una volta, regalandoci questo Sizwe Banzi est mort.
L’idea di mettere in scena l’opera di Athol Fugard se la porta con sé da più di trent’anni, da quando a Londra, assistendone a una messa in scena, rimase folgorato dalla forza di quella storia di vita vera, intrisa di sfruttamento e morte eppure ossimoricamente vitale. In questi trent’anni Brook si è confrontato più e più volte con tematiche estranee al suo background socio-culturale, sfidando se stesso, tuffandosi in un rischioso viaggio nell’interculturalità: ad oggi, è ancora lì vincitore, pur non smettendo mai di proporsi nuove sfide. Così ancora alle prese con l’Africa, si butta in quest’opera sociale sul dramma dell’apartheid, piccolo capolavoro del teatro delle townships. E’ una storia che sa farsi ascoltare, intensa e mai banale: Sizwe Banzi, contadino di provincia, si ritrova ad Elisabeth Town alla ricerca di un lavoro, ma le sue carte non sono in regola. Per evitare il rimpatrio e la rovina del clan dei Banzi, Sizwe sacrificherà se stesso e la sua identità ad una vita dignitosa, sancirà il suo ingresso in società con una sorta di rito di passaggio che ha a che fare con la morte. Tutto questo come lo racconta quel genio di Brook? Con una risata, con un sorriso che ti apre il cuore, annulla il tempo e permette al messaggio di scorrerti dentro senza sforzo, senza fatica. Brilla ovunque l’intelligenza, tipica di questo teatro "sociale" e di Brook stesso, di scegliere cosa sottolinere, e come, tramite la derisione e l’umorismo.

Gli attori dominano la platea con maestria, giocano con se stessi e con il pubblico eliminando distanze di ogni sorta: loro, la materia prima che Brook plasma senza metodi rigidi o prefissati, stupiscono per quel sorriso, a volte palesato, a volte invisibile, che si portano dietro in ogni piccolo gesto. Habib Dembélé entra ed esce da mille personaggi, giustapponendo più strati narrativi: lui, l’attore, è personaggio interprete di altri personaggi. Lui è narratore e lui è narrato: il suo corpo è quello del lavoratore, sfruttato,in fabbrica, ed è al contempo la fabbrica evocata e la massa operaia e il direttore della fabbrica intera. Cantastorie degno, showman e un po’ filosofo insieme. Pitcho Womba Konga, una vita dedicata alla musica, nessun sogno di infanzia nel mondo del teatro per lui, nello spettacolo interprete di Sizwe, è come un pugno nello stomaco per chi lo osserva: non si può rimanere indifferenti di fronte allo sfogo cruento eppur tenero di questo colosso umano in lacrime. Due attori, molti personaggi: molte umanità (o inumanità, a volte) che prendono vita in uno spazio aperto a infinite possibilità, denso di segni dai significanti multipli. E’ lo spazio vuoto, che non evoca assenza, ma che racchiude in sé i germi delle più svariate forme di vita, che non è mai scontato, che non è mai banale. Essenza del dinamismo, simbolo del divenire, lo spazio descritto da pochi dettagli polivalenti è l’esempio di quella semplicità che il teatro brookiano invoca. Ancora una volta con quest’ultimo piccolo capolavoro Brook dimostra al mondo, tramite la magia dello spazio costruito dall’attore con le sue parole, il suo corpo, il suo movimento, come l’essenza del teatro non si nasconda dietro costumi stratosferici e scene costose e ridondanti. Ancora una volta, se ce ne fosse stato bisogno, Brook ci dimostra come l’essenziale sia più ricco del sofisticato e ci ridà modo di riflettere su ciò che noi spettatori di teatro cerchiamo in uno spettacolo: è artificio, perfezione, arte? O non è forse nient’altro che vita?

"Posso scegliere uno spazio vuoto qualsiasi e decidere che è un palcoscenico spoglio. Un uomo l’attraversa e un altro osserva: è sufficiente a dare inizio ad un azione teatrale" (Brook,1968)

Ecco di cosa parla il teatro: di uomini. Non c’è altra materia di cui sia fatto il teatro. Uomini e sogni. E il sogno di Peter non cesserà mai di affascinare; l’uomo Peter non potrà mai scomparire. E così eccoci qui ad annunciare la morte di Sizwe Banzi, commossi eppur gioiosi, perché con questa morte il teatro si proclama ancora e sempre vivo.

Sizwe Banzi est mort di Athol, John Kani e Wiston Ntshona Regia: Peter Brook; adattamento in francese: Marie-Hélène Estienne; interpreti: Habib Dembélé, Pitcho Womba Konga; luci: Philippe Vialatte; elementi scenici: Abdou Ouologuem


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