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So Long, My Son - Concorso

Pubblicato il 15 febbraio 2019 da Matteo Galli

VOTO:

So Long, My Son - Concorso

Chissà da quanto tempo non succedeva che l’ultimo film in concorso della Berlinale fosse già il giovedì mattina. Quel che resta da vedere sono “solamente” due film fuori concorso; anche perché One Second, l’annunciato film di Zhang Jimou che avrebbe dovuto chiudere è stato cancellato, ci hanno raccontato, per ragioni tecniche, con il cinema cinese però non si sa mai. Anche il film che ha dunque finito per diventare l’ultimo film in concorso proviene dalla Cina. Non è stato girato da un regista così famoso come Zhang Jimou, ma anche il cinquantatreenne Wang Xiaoshuai è – come si è detto in sede di presentazione – un regista assai celebre e pluripremiato a Cannes, a Locarno e anche a Berlino (diverso tempo fa nel 2001 con Le biciclette di Pechino e nel 2008 con In Love We Trust). Il titolo internazionale del film di quest’anno è So Long, My Son, un romanzo familiare che si estende per almeno una trentina d’anni, sullo sfondo delle trasformazioni della Cina contemporanea, e raggruppa esattamente dieci personaggi. Due coppie (la prima: lui Yaojun, lei Liyun; la seconda: lui Hao, lei Haiyan), i loro due figli maschi (rispettivamente: Xingxing e Haohao) , amicissimi fra loro, una zia (sorella del padre della famiglia 2 e, a un certo punto, amante del padre della famiglia 1 che si chiama Moli), un’altra coppia di amici, un figlio adottato. I nomi aiutano poco, evidentemente. Il dramma intorno a cui ruotano le tre ore del film è la morte per annegamento di Xingxing, il figlio della coppia 1, una morte mai veramente superata dai genitori, ma, se possibile, ancor di più dalle altre persone a vario titolo coinvolte, in particolare madre e figlio della coppia 2. Dal figlio Haohao, perché come apprenderemo solo in fondo, egli ha svolto un ruolo centrale nel provocare, seppur involontariamente, quella morte; ma la più traumatizzata di tutti, fino a morirne, è l’altra madre, la madre dell’amico, perché qui la vicenda personale s’intreccia con la vicenda politica: in qualità di rappresentante del partito all’interno della fabbrica dove tutti a un certo punto lavorano, Haiyan aveva vigilato affinché, nel quadro del programma nazionale di controllo e decremento demografico, venissero rispettate le prescrizioni volte a limitare le nascite - e la madre di Xingxing era rimasta incinta una seconda volta; le viene dunque impedito di avere un secondo figlio e poco tempo dopo perde l’unico che ha. Il figlio morto e il figlio abortito non sono gli unici figli che troviamo in So Long, My Son; c’è appunto Haohao, che diventa adulto, sarà il medico che diagnosticherà la malattia mortale della propria madre, e che, come si diceva, solo da ultimo riesce a trovare il coraggio di confessare, poi c’è – figlio 4 - il figlio che la coppia rimasta senza figli deciderà di adottare, ciò che darà vita a un rapporto ipercomplesso anche perché i genitori senza fare mistero della funzione sostitutiva svolta da quel ragazzo lo ribattezzano chiamandolo Xingxing, come il proprio figlio morto, immaginatevi i problemi del ragazzo che infatti a un certo punto scappa di casa. C’è poi un figlio 5, quello di cui resta incinta Moli l’amante di Yaojun, la quale poi parte per gli USA, lasciando intuire che anche lei, stavolta volontariamente, abortirà. E invece, anche qui sul finire, veniamo a sapere che il bambino è nato ed è cresciuto. Se nel leggere questa abbozzata sinossi, avete avuto qualche problema di comprensione, ciò rispecchia esattamente la situazione in cui si trova lo spettatore quando guarda il film: deve continuamente domandarsi che cosa sta accadendo, se l’episodio che sta guardando è cronologicamente precedente o successivo a quello che si è appena finito di guardare. Diciamo che dopo due ore abbondanti di film si è presa una certa dimestichezza con la tortuosa scansione cronologica di stampo modernista con cui è costruito il film e tramite la quale il regista e sceneggiatore ha con tutta evidenza inteso complicare una vicenda familiare che, raccontata senza acronie, avrebbe forse finito, ai suoi occhi, per risultare un po’ troppo banale. Questo tipo di struttura richiede un livello di vigilanza altissimo, complicato ulteriormente dal fatto che in un film cinese i nomi non aiutano e - come capita spesso - anche l’ausilio della fisiognomica è scarso. Ciò malgrado o anzi: proprio per questo – la scelta di una struttura acronica - il film è molto interessante. E lo è anche per altre due ragioni: perché ha saputo innestare la vicenda privata delle due famiglie all’interno delle tensioni politiche, nella fase immediatamente successiva a quella della rivoluzione culturale, e perché, soprattutto nella parte finale, ha saputo raccontare le vertiginose trasformazioni, in particolare urbanistiche, di costume e dei consumi, della Cina contemporanea. Straordinario l’attore che interpreta Yaojun, il padre del figlio morto, del figlio abortito, del figlio adottato, del figlio extraconiugale, che risponde al nome di Wang Jingchun. Non ci stupiremmo se in una Berlinale senza grandissimi interpreti maschili fosse lui a prendere il premio come migliore attore. Anche la fotografia potrebbe essere premiata, uno dei pregi del film: in una Berlinale molto povera di piani sequenza è il film che ne fa un uso sistematico ma non stucchevole. E anche il film nel suo complesso, capace di trattare questioni universali e questioni politiche, queste ultime non in modo didascalico e di denuncia, potrebbe essere premiato.


CAST & CREDITS

(Di jiu tian chang); Regia:Wang Xiaoshuai; sceneggiatura: Wang Xiaoshuai, A Mei; fotografia: Kim Hyun-seok; montaggio: Lee Chatametikool; interpreti: Wang Jingchun, Yong Mei, Qi Xi, Wang Yuan, Du Jiangproduzione: Dong Chung Films, Shanghai, Hehe Pictures, Shanghai, FunShow Culture Communications, Pechino; origine: Cina 2019; durata: 175’.


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