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Speciale TV vintage: Il mio amico Arnold

Pubblicato il 9 settembre 2009 da Marco Di Cesare


Speciale TV vintage: Il mio amico Arnold

Ormai molti anni fa un minuscolo bambino nero di otto anni lasciò delle impronte sullo schermo televisivo che ancora oggi fanno parlare di sé, indelebili. Erano quelli i segni tangibili di un passaggio, di una scalata verso il successo che univa il destino di un personaggio a quello di una persona, un gioco che esibiva l’aspirazione alla verticalità più estrema in una sfida ai limiti imposti da una cima irraggiungibile per molti, alla ricerca di quell’American Dream che da sempre attende pochi fortunati in un cielo sgombro di nuvole: un attico a Manhattan, nello specifico, residenza del ricco signor Drummond, vedovo con a carico l’adolescente Kimberly, un benefattore che si prenderà cura dei figli della sua domestica nera, mantenendo una promessa fatta alla donna, morta lasciando orfani il tredicenne Willis Jackson e il fratellino Arnold, che da Harlem verranno accolti a Park Avenue («E chi altro si sarebbe preso in casa due estranei sfamandoli, vestendoli e dandogli un letto?» chiede Arnold nell’episodio 2.8, L’adozione - parte 1: «Solo la polizia, che sappia io» risponderà Willis).
Drummond, quindi, il buon capitalista che cerca finanziatori per realizzare un complesso residenziale dove la case siano alimentate a energia solare. Un uomo bianco che non sopporta i razzisti. Una persona speciale, di certo, ma che ha timore di andare ad Harlem di notte, sentendo anche lui il peso degli stereotipi, tuttavia capace di non farsi limitare dai suoi pre-giudizi dopo che ha toccato la realtà tangibile. Un padre che unisce due famiglie che sono state amputate e che cercano di rinascere più forti di prima, attraverso l’unione del Bianco e del Nero, senza che il primo tenti di fagocitare il secondo, perché l’America sia fatta realmente di Stati Uniti. Pure quando Willis instilla il dubbio che la giustizia non sia uguale per tutti, nonostante quello che pensano Drummond e i suoi libri.

Diff’rent Strokes si chiamava Oltreoceano, dai versi di Everyday People, canzone soul degli Sly and Family Stone che nel 1968 divenne un inno contro il razzismo e in favore della pace e uguaglianza tra i diversi gruppi etnici; e Diff’rent Strokes era il titolo del brano che apriva e chiudeva le puntate di questa serie che raccolse successi sulla NBC dal 1978 al 1985, concludendo la propria carriera l’anno successivo sulla ABC. In Italia approdò nel 1980 su delle tv locali col titolo di Harlem contro Manhattan, venendo trasmessa per due stagioni. In seguito, mentre sempre più ci si addentrava nel decennio che sconvolse il mondo con la forza dell’inerzia, divenne una delle maggiori attrazioni all’interno del palinsesto berlusconiano, cambiando titolo prima in Il mio amico Arnold, poi in un ancora più semplice Arnold, nel tentativo di spostare sempre più l’attenzione dal grande al piccolo, dal contesto al testo, come a simboleggiare lo scivolare dall’esprit degli anni Settanta a quello degli Ottanta, abbandonando il sistema dell’individuo nella politica per giungere alla politica dell’individuo, nel tentativo forse di normalizzare una serie che, nonostante le apparenze, era tutt’altro che normale.
Perché Il mio amico Arnold era una commedia inter-etnica che proveniva dal Paese del melting-pot, ambientata nella metropoli che più di tutte allora incarnava il crogiolo di razze ed etnie: il risultato è stata una comicità leggera, ma anche caustica, capace di colpire l’America nel suo cuore più nero, quasi quanto i più o meno coevi Jefferson, giocando col politicamente (s)corretto, ma senza volgarità, divenendo persino crudele come la vita che metteva in scena in forma di commedia, brutale come le fiabe, che scelgono il ghigno per farci ridere e, allo stesso tempo, metterci a disagio. E, come una fiaba, è stato un insegnamento per l’infanzia, ponendola per di più di fronte ai pericoli che da sempre la attendono di fuori, nel mondo: difatti col trascorrere delle stagioni ha affrontato tematiche forti come la bulimia, la droga e la pedofilia (ma senza riuscire a insegnare ai suoi tre piccoli protagonisti come proteggersi da un destino infausto e, purtroppo, addirittura tragico, che li avrebbe colti una volta divenuti adulte stelle cadute).

Forte era, quindi, l’intento educativo, come in ogni prodotto rivolto alle famiglie. Eppure non mancava quella smorfia che solcava ogni puntata. A cominciare da certi sbeffeggiamenti verso la fisicità di Arnold/Gary Coleman, più volte sottolineata come se lui fosse un fenomeno da baraccone, ma che simboleggiava pure l’essere piccolo e sfortunato che scala le montagne (come ironicamente ci mostrava quando agilmente si arrampicava sul suo letto a castello per arrivare all’ultimo piano, per dormire lì, in alto, dove magari era più facile per «il piccoletto dei quartieri alti» parlare con Dio). E dotato in ogni caso di un senso dell’autoironia che sapeva investire le proprie stesse fattezze fisiche, qualità che gli permetteva di adeguarsi al mondo senza ingaggiare inutili lotte dalle quali era impossibile uscire vincitore: di sapere, quindi, anche mediare con la realtà umana circostante, di scendere a compromessi.
E, per quanto riguarda la costante contrapposizione tra alto e basso, significativa era la sigla di apertura, dove una panoramica orizzontale presentava i grattacieli di Manhattan, procedendo poi, attraverso veloci stacchi di montaggio, a mostrare una lunga limousine nera che calcava una striscia d’asfalto che attraversava i bassi palazzi di Harlem: quella macchina ospitava Drummond che stava andando a prendere i suoi figli maschi, intenti a giocare a basket (indubbiamente uno degli sport preferiti dai giganti, tanto che Willis amorevolmente sollevava tra le sue braccia il fratellino, per facilitarlo nel fare canestro); il cortometraggio terminava con un’altra panoramica, ma questa volta in verticale, necessaria per tentare di scorgere il limite dove è più facile intravedere il Sogno americano e il suo buon Dio, nell’attico dei Drummond («Siamo così in alto che siamo al sicuro dai piccioni», come afferma Arnold nell’episodio 1.10, Il combattimento). E la stessa casa Drummond, disposta su due piani, costituiva un collegamento tra alto e basso, tra la zona giorno e quella notte (tra bianco e nero, quindi?): per passare da una parte all’altra si potevano utilizzare due scale che, però, difficilmente venivano calpestate da passi che procedevano lenti, in una interessante raffigurazione della giovinezza impetuosa unita alla velocità tipica delle sit-com.

In questo mondo che correva già veloce, ma che era capace di rallentare per meditare, Arnold più di tutti rappresentava il ’diverso’ che mette a soqquadro un mondo da favola, grazie alle potenzialità insite nei bambini. In più, per sottolineare la sua condizione di infante, a nostro parere Arnold simboleggiava una fissazione legata alla fase orale dello sviluppo psicosessuale secondo le teorie di Sigmund Freud. Difatti il piccolo veniva continuamente preso in giro anche a causa della sua fame senza sosta e della sua estrema loquacità che spesso gli creava problemi, senza dimenticarsi di un certo sarcasmo che lo caratterizzava.
La fase orale contraddistingue i primi mesi di vita e, perciò, è associata allo svezzamento: nel caso di Arnold si può pensare a una difficoltà incontrata nel processo di crescita psichica e legata alla prematura scomparsa dei genitori, ma che non gli ha impedito di accettare subito la nuova famiglia, come se le sue radici affondassero più nella Natura (un pensiero che combacia perfettamente col corpo) che nella Cultura di provenienza (Harlem), diversamente da Willis, più grande – ricordiamolo - di alcuni anni. Un bambino, Arnold, affamato di attenzioni e che deve imparare a risolvere certi conflitti col mondo esterno, come quelli col tipico bullo della classe, senza che, magari, venga viziato da una eccessiva protezione dentro il nuovo nido famigliare; mentre Willis deve capire come impedire ai conflitti interiori di prendere possesso della sua vita.
Tornando a Freud, si può dire che questi viene espressamente citato nella puntata 1.18, La crisi della Signora Garrett, all’interno di uno scambio di battute tra Drummond e Arnold, il quale non riesce a comprendere i motivi che spingerebbero l’adorata governante ad abbandonare quella casa («Non riesco ancora a capire perché la signora se ne va». «Vedi Arnold, sta cercando di trovarsi». «Perché non si guarda allo specchio?». «È più complicato di questo, Arnold. Vedi, si tratta di quello che hai già fatto nella vita, di ciò che vuoi ancora fare nella vita e non riesci a fare perché... è la vita». «Ma che sta dicendo?!». E, sorridendo, Drummond replica: «Arnold, hai mai sentito parlare di un certo Sigmund Freud?». «No». «Bene, continua così»).
Continua così allora, Arnold, perché forse è proprio l’innocenza la strada giusta per diventare adulto in un mondo che è diviso tra carezze e pugni, i Diff’rent Strokes di un’America che non riesce a diventare grande e che conosce due soli colori: quel bianco e quel nero che, purtroppo, non sempre riescono a comunicare come in certe sit-com.


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