Synonymes -Concorso
Non è certo un film perfetto Synonymes del quarantaquattrenne regista israeliano Nadav Lapid, ma di tutti quelli visti in concorso a Berlino è forse il più originale e complesso, imprevedibile e disturbante, alcune sequenze sono addirittura memorabili. Per esempio la prima: Yoav, un giovane israeliano, che guarda sempre in terra (e con lui la macchina da presa) approda a Parigi con lo zaino in spalla, trova la chiave sotto la passatoia davanti all’appartamento di un palazzo alto-borghese in rue Mazarine, dove dovrà trascorrere la prima notte, la casa è, con sua sorpresa, completamente sgombra e spoglia, tutto nudo Yoav s’infila nel sacco a pelo, la mattina dopo si sveglia infreddolito e si fa una doccia in una vasca da bagno, quando esce dal bagno tutti i bagagli sono spariti. E lui è nudo come un verme. Vaga, disperato e sempre più raggelato, per i pianerottoli, bussa alle porte, nessuno apre, poi, travolto dai brividi, se ne torna nella vasca sotto l’acqua. Tempo dopo (ore?) una coppia di giovani, belli e ricchi (l’aspirante scrittore Emile e la sua compagna, l’oboista Caroline), fra mille titubanze e con il martello in mano, non si sa mai, rispondono all’appello entrando nella casa, dove è rimasta la porta spalancata, e lo trovano riverso nella vasca, come un Cristo morto, forse già assiderato. Non è morto, ma è come se lo fosse: da qui inizia la resurrezione, la nuova vita di Yoav. E una nuova vita, quando ricomincia a parlare, è proprio quello che vuole.
Un inizio che – sarà Parigi – fa pensare immediatamente a Bertolucci, a The Dreamers, ma anche ovviamente a Ultimo Tango. E non solo l’inizio: Yoav diventa più o meno l’amante di entrambi, sia di lui che di lei, e quando Emile lo riveste da cima a fondo, lo dota di un cappotto che non sarà color cammello come quello di Marlon Brando, è più vistoso, giallo-senape, ma diventa anche in questo caso un segnale di riconoscimento in giro per la città. Lo capiamo a poco a poco, Yoav è affetto da un disturbo post-traumatico, un disturbo legato al suo lungo servizio militare in Israele. Col proprio paese non vuole più aver nulla a che fare, si rifiuterà da qui in avanti di parlare ebraico, vuole in tutto e per tutto trasformarsi in un francese, vuole imparare a menadito la lingua, la prima cosa che acquista con il non scarsissimo argent de poche che gli mette a disposizione il ricco Emile è un dizionario tascabile; e – altre sequenze memorabili – quando, seguito dalla camera a mano, si mette inquieto a vagare per Parigi ripete fra sé e sé e ad alta voce lemmi tratti dal dizionario, quei sinonimi di cui al titolo. Yoav vuole totalmente liberarsi del passato, vuole obliterarlo senza elaborarlo, una scelta che viene magnificamente esemplata dall’offerta fatta a Emile, scrittore velleitario senza vera ispirazione e cose da raccontare, di donargli le proprie storie, piccolo/grande atto di gratitudine e sorta di patto faustiano, dopo che, di fatto, lui lo ha riportato in vita. In un momento successivo del film, ricco di sequenze digressive non tutte perfettamente riuscite, Yoav capisce che dal passato non è riuscito davvero a liberarsi, non solo perché il padre lo viene a cercare a Parigi (peraltro la sceneggiatura del film, ricca di elementi autobiografici, Lapid l’ha scritta insieme al padre Haïm), ma anche perché i lacerti traumatici e anche paradossali della sua vita continuano a perseguitarlo - ed è allora, forse il primo segno di guarigione, quando il protagonista chiede a Emile di potersi riprendere le proprie storie. La scena finale – Yoav con lo zaino in spalla - lascia intendere che tornerà a vagare, o forse, più probabilmente tornerà a casa. In mezzo a questo percorso circolare il film racconta il non sempre avvincente triangolo amoroso, racconta i tentativi del protagonista di trovare un lavoro: all’inizio usciere all’ambasciata israeliana (questa è la parte più debole del film; d’accordo che hai perso tutto e devi farti ridare i documenti, ma che poi accetti un lavoro da un’istituzione del paese dal quale vuoi prendere le distanze non suona credibile), in seguito, dopo aver completamente dato di matto ed esser stato cacciato dall’ambasciata, si presta a lavorare come modello, a disposizione di un fotografo voyeur che ne filma il corpo nudo, qui la nudità non è subita come all’inizio, ma in qualche misura consapevolmente assunta con professionalità. Memorabili, nella loro surrealistica paradossalità eppur nel loro assoluto realismo, anche le sequenze di educazione civica a cui partecipa Yoav insieme ad altri migranti per poter acquisire la cittadinanza francese, il cui carattere coercitivo viene abbondantemente messo in discussione dal protagonista in una scena successiva, anch’essa memorabile, con Caroline e i suoi orchestrali. Synonymes è l’unico film della Berlinale che tratta del rapporto fra l’Europa e i migranti, e riesce a farlo senza incorrere in eccessive banalità. Nei suoi momenti migliori il film ci ha ricordato The Square. Nell’insieme non sarebbe un film da quattro stelle, ma va premiata la superiore originalità, anche rispetto ai tre film migliori visti fin qui, quello di Ozon, quello di Giovannesi e quello di Teona Strugar Mitevska.
(Synonymes); Regia: Nadav Lapid; sceneggiatura: Nadav Lapid, Haïm Lapid; fotografia: Shai Goldman; montaggio: Era Lapid, François Gédigier, Neta Braun; interpreti: Tom Mercier (Yoav) Quentin Dolmaire (Emile), Louise Chevilotte (Caroline), produzione: SBS Films, Parigi origine: Francia, Israele, Germania 2019; durata: 123’.