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Temblores - Panorama

Pubblicato il 8 febbraio 2019 da Matteo Galli

VOTO:

Temblores - Panorama

Piacque molto a Berlino nel febbraio del 2015 il film di esordio del regista guatelmateco Jayro Bustamante intitolato Ixcanul. Ottenne il premio come migliore opera prima e venne anche distribuito in giro per il mondo, pure in Italia col titolo Vulcano, da Parthènos e Lucky Red. Uscì quell’anno stesso, nel mese di giugno, che non è mai un momento particolarmente felice, e infatti - che tristezza! - incassò solo 18.500€, poi però è stato anche pubblicato in DVD. Adesso Bustamante ha girato il suo secondo film, anche stavolta presentato a Berlino, stavolta però nella sezione “Panorama”, peccato perché il film aveva, secondo noi, la statura per entrare in Concorso. S’intitola Temblores, ossia tremori ma anche scosse -un titolo evidentemente duplice perché in due brevi sequenze del film si assiste a scosse di terremoto, che in Guatemala non è poi un evento particolarmente raro, mentre l’altro significato, il significato preminente, è proprio quello psicologico, nel senso di “esitazioni”. Il primo film era ambientato in una zona rurale del paese e raccontava dinamiche primordiali di tipo tribale (i protagonisti appartenevano alla tribù Kaqchikel) e animistico, le tragiche conseguenze del rifiuto di un matrimonio programmato in una comunità contadina; questo secondo, invece, è ambientato nella capitale, quasi tutti i protagonisti sono borghesi benestanti che abitano in case eleganti e sontuose. Eppure non ci sono tantissime differenze: anche in questo film si raccontano gli effetti devastanti dei condizionamenti sociali, anche in questo film i valori che l’uomo occidentale tende a considerare imprescindibili quali l’autodeterminazione del soggetto, il libero arbitrio continuano a essere tutt’altro che acquisiti, scontati, anche in questo film vigono, dietro la patina argomentativa circa il rispetto di presunte regole, dinamiche primordiali. Il protagonista si chiama Pablo, è un promoter di successo a Ciudad de Guatemala. Nella primissima scena, in mezzo a una pioggia battente e, appunto, fra le scosse del terremoto, arriva, come uno zombie, nel salotto della casa avita, dove tutta la famiglia lo sta aspettando, per così dire, al varco; senza aprire bocca, si nasconde immediatamente nella propria stanza. Invano, a turno, i parenti (genitori, fratelli), in apparenza dispiaciutissimi, cercano di comunicare con lui, ma Pablo si è chiuso in un silenzio impenetrabile che sa tanto di depressione, e a un certo punto vomita anche. Una sola persona non prova neanche lontanamente ad avvicinarsi a lui, una donna molto elegante e algida che scopriremo essere la moglie Isa. Quello di Pablo, marito e padre, è un breve e illusorio ritorno, perché ha deciso di andarsene di casa, si è innamorato, ma non di un’altra donna, bensì di Francisco, un simpatico infermiere/massaggiatore che assomiglia al calciatore Salah. Da qui ha inizio la rapidissima marginalizzazione di Pablo che perde istantaneamente il lavoro e il diritto di vedere i figli. Pablo sembrava malato e invece ha scoperto di essersi innamorato di un uomo. Ma agli occhi della famiglia l’omosessualità è una malattia ancor più grave della depressione, e come tale va trattata. La cura? Travolto e stravolto dai sensi di colpa, Pablo si presta a sottostare a un trattamento d’impianto religioso, messo in atto da un pastore elegantissimo in giacca e cravatta e da una evangelizzatrice esaltata (in gonna di pelle, però), una via di mezzo fra Scientology, gospel, new age, un trattamento tuttavia che non disdegna, per giungere al risultato, anche di avvalersi di tecniche che di fatto assomigliano alla castrazione chimica al fine di abbassare la libido. Una roba terribile. Il film è un ottimo mélo con una sceneggiatura oltremodo solida, è notevolissimo nel raccontare i diversi ambienti: quello alto borghese, quello sottoproletario della servitù india (che ricorda i personaggi di Ixcanul), quello religioso in tutti i suoi eccessi, quello un po’ alternativo e assolutamente senza eccessi della scena gay. Il protagonista, che vorremmo un po’ più tonico e volitivo, è schiacciato fra essere e dover essere, fra amore e dovere, come si conviene nei mélo, tremori, appunto. Dalla prospettiva di uno spettatore europeo illuminato ci si chiede se il film, con l’estremismo fideistico, intransigente e fanatico che lo contraddistingue, sia da considerarsi totalmente realistico o se invece indulga consapevolmente a paradossi di stampo surrealista, più di una volta ci è venuto da pensare a Buñuel, sebbene questa borghesia guatemalteca non abbia il minimo fascino, né discreto né indiscreto. E’ assai probabile tuttavia che in Guatemala, o almeno nel Guatemala alto borghese, le cose funzionino esattamente così. Come il film precedente anche Temblores ha capitale francese (e pure lussemburghese, il paese viene omaggiato in una battuta alquanto paradossale in cui, sorprendentemente, si mettono a confronto i diversi modi di affrontare l’omosessualità in Guatemala e in Lussemburgo) e ha ottime possibilità di essere distribuito in giro per il mondo, ancor più del primo film di Bustamante.


CAST & CREDITS

(Temblores); Regia: Jayro Bustamante; sceneggiatura: Jayro Bustamante; fotografia: Luis Armando Arteaga; montaggio: César Diaz, Santiago Otheguy; interpreti: Juan Pablo Olyslager (Pablo), Diane Bathen (Isa), Mauricio Armas Zebadúa (Francisco), Maria Telón (Rosa); produzione: Tu vas voir, Parigi, La casa de Producción, Ciudad de Guatemala origine: Guatemala, Francia, Lussemburgo 2019; durata: 107’.


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