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Terry Gilliam e il Benvenuto Cellini di Berlioz

Pubblicato il 3 aprile 2016 da Anton Giulio Onofri


Terry Gilliam e il Benvenuto Cellini di Berlioz

Il love affair tra Berlioz, poco amato e (parzialmente) incompreso nella sua Francia natìa, e la "vicina" Inghilterra ebbe inizio con la sua prima seria infatuazione sentimentale per l’attrice Harriett Smithson, incantevole interprete delle due più squisite creature di Shakespeare, Giulietta e Ofelia; per due anni il giovane Hector, di lì a breve autore della Symphonie Fantastique, non osò rivelarsi, e quando trovò finalmente il coraggio di chiederle la mano lei rifiutò, per cedere soltanto dopo altri tre anni, e finalmente sposare il compositore insignito, dopo quattro tentativi andati a vuoto, del Prix de Rome, e acclamato creatore della Fantastique e di Harold en Italie. I due si sposarono l’anno seguente, nel 1833, esattamente quando Berlioz cominciò ad accarezzare l’idea di azzardarsi a conquistare un territorio saldamente presidiato, a Parigi, da Meyerbeer, Adam e Auber: il teatro musicale. La vita mondana e culturale di Roma, dove grazie al Prix aveva soggiornato per due anni, non lo aveva granché stimolato. Ma quanto, invece, dell’aspetto storicamente stratificato della Ville Éternelle, dei ruderi e del barocco illustrati nelle incisioni di Piranesi, degli scorci ritratti da Roesler-Franz, dei vicoli, delle losche taverne, delle popolane di Pinelli, della pittoresca e schietta volgarità di modi, costumi e colori di una città mantenuta per secoli, dalla stagnante immanenza del potere della Chiesa, nella perpetua condizione di cornice "popolaresca" alla vita di un’aristocrazia poco colta e un po’ burina, pronta a inginocchiarsi per baciare gli anelli del Papa Re, quanto di tutto questo colpì l’estro di Berlioz, risvegliandosi nel ricordo, al suo rientro a Parigi, in coincidenza con la lettura della Vita appena tradotta in francese dell’orafo, scultore, donnaiolo (e anche assassino) fiorentino Benvenuto Cellini? La risposta è tutta lì, nell’Opéra intitolato col nome dell’artista in cui, come nel Faust di Goethe, nell’Aroldo di Byron, o nell’Enea virgiliano, Berlioz ravvisò evidentemente qualcosa di sé, delle proprie tormentate inquietudini e umane debolezze rimestate da un foscoliano "spirto guerrier" egòtico, ribelle, passionale, narciso, insomma: romantico, acceso dal sacro fuoco della creatività artistica. E fu senz’altro il fresco ricordo di Roma, teatro di un’italianità più vagheggiata che reale, a indurre Berlioz e i suoi librettisti nell’errore, del tutto volontario, di ambientarvi una vicenda completamente inventata: Cellini, infatti, fu a Roma durante le turbolenze del Sacco del 1528, e mai avrebbe avuto il tempo, impegnato nella difesa di Papa Clemente VII, di indulgere in amorazzi e soprattutto di forgiare la sua più famosa creatura, il Perseo, nell’opera commissionatagli dal Papa, che realizzò invece a Firenze per Cosimo de’ Medici. Di sana pianta è inventata pure la tresca amorosa, che dà al Benvenuto un sapore di Capriccio Romantico, come quei film americani della metà del secolo scorso che attribuivano ad artisti, musicisti o famosi letterati flirt e amori improbabili e pretestuosi. Ma il Cinema, esattamente come l’Opera, ha un suo pubblico pagante, che va intrattenuto e divertito. Ed è proprio Roma, al di sopra di Cellini, dei suoi cesellatori, della sua amata e dei suoi rivali in amore, l’assoluta protagonista "musicale" dell’opera, trovando nella tavolozza berlioziana - così come si potrebbe affermare l’esatto contrario - il colore e l’idiosincratica frenesia della vita nei borghi del centro cittadino, impaginato al di qua e al di là delle rive del Tevere, tra Piazza Colonna, il Colosseo e Castel Sant’Angelo. Tornando alla relationship tra Berlioz e l’Inghilterra, va riconosciuto che il maggiore interprete della sua musica, colui che con le prime incisioni discografiche degli opera pressocché omnia negli anni ’70 e ’80 del secolo scorso ne impostò una renaissance che fece giustizia di tante, troppe incomprensioni, fu proprio un baronetto di Elisabetta II: Sir Colin Davis. Il neoclassicismo screziato e infiorettato, spelling sonoro dei pittori suoi contemporanei come David, Jerôme, Chasseriau, Ingres e Delacroix, che scaturisce agile e brillante come mercurio, smerigliato da più sobrie tinteggiature écru, quando non lucido e tinnante come l’oro dei monili delle antiche matrone, o esuberante e pastoso come vino genuino gettato da una fontana dalle partiture di Berlioz, trovarono in Sir Colin la bacchetta ideale, la fusione perfetta di timbro, tenuta e dinamica, a vantaggio di un’agogica talmente complessa e ingannevole, da risultare spesso addirittura fuori fuoco se affidata ad altri interpreti, pur se garantiti da carriere e curricula ragguardevoli. È questa una delle ragioni per cui Berlioz può risultare se non ostico, quantomeno difficile alle orecchie non soltanto del pubblico medio, ma pure dei professionisti delle sette note: c’è ancora in giro chi, come un celebre e assai dotato compositore italiano contemporaneo, trova "brutta" tout court la Symphonie Fantastique...
Singolare quindi che un compositore francese dell’800 abbia trovato in una bacchetta inglese del XX secolo il suo campione più convinto e convincente. Limitandosi al Benvenuto Cellini, basti dire che Sir Colin Davis ne incise ben tre versioni differenti, nel 1972, nel 2000 e nel 2007, tutte di qualità inestimabile, una in studio e due in live. Venendo invece, e finalmente, allo spettacolo del Teatro dell’Opera di Roma, coprodotto con la londinese English National Opera e la De Nationale Opera di Amsterdam dove è stato allestito rispettivamente nel 2014 e nel 2015, sia detto con riverito rispetto per il direttore, la compagnia cantante, il coro e l’orchestra, non c’è dubbio che l’elemento di maggiore curiosità fosse la regia di Terry Gilliam, naturalizzato inglese soltanto nel 2006 (è nato in Minnesota 76 anni fa), ma fin dagli anni ’70 del ’900 attivo in Inghilterra come membro degli irresistibili Monty Python, e regista in proprio divenuto una figura "cult" per via di alcune vicissitudini produttive come la morte di Heath Ledger durante la lavorazione di Parnassus - L’uomo che voleva ingannare il diavolo, poi terminato utilizzando per lo stesso personaggio altre tre star, Johnny Depp, Jude Law e Colin Farrell, o che gli hanno impedito di realizzare il vecchio sogno di un film su Don Chisciotte (ma è di qualche giorno fa la notizia che finalmente ha trovato i soldi e che inizierà a girare il prossimo settembre). Il suo capolavoro assoluto rimane quell’ormai lontano, orwelliano Brazil, considerato da alcuni, come il sottoscritto, il vero cult di fantascienza degli anni ’80, vetta forse mai più raggiunta nonostante gli eccellenti risultati de La leggenda del Re Pescatore e L’esercito delle 12 scimmie. Del suo stile, Wikipedia mette in evidenza "l’esasperato eclettismo figurativo, di spiccata matrice postmoderna, in cui bello e brutto, antico e moderno, sublime e kitsch, elementi di cultura ’alta’ e avanzi pop si intrecciano senza ordine gerarchico". Se Hector Berlioz vivesse ai giorni nostri, probabilmente queste parole calzerebbero a pennello con la sua musica, che suonerebbe alle orecchie degli odierni ascoltatori stramba, spudorata e bulimica almeno quanto la percepivano i suoi coevi connazionali, che gli fecero sospirare il Prix de Rome, fischiarono le sue opere, e gli negarono, procurandogli grande amarezza, le più alte cariche a guida delle più importanti istituzioni musicali di Francia. Era nell’aria, dunque, che l’estro di Gilliam e il genio di Berlioz dovessero prima o poi incontrarsi, e questo Cellini è già una seconda volta, dopo la messa in scena al London Coliseum de La damnation de Faust. Va da sé che visto a Roma lo spettacolo produce un effetto totalmente diverso che a Londra o ad Amsterdam, perché il pubblico in sala, un po’ come quando si rappresenta la Tosca di Puccini, ritrova ricostruiti sulla scena luoghi che frequenta, se non quotidianamente (non tutti i romani abitano nel centro storico), con familiare regolarità. E garantito è, se non altro, quel certo effetto straniante che arricchisce la fruizione e la condisce di elementi che favoriscono tutto un gioco di rimandi e riferimenti tra l’evocativo e il divertente, ma che rischiano di compromettere un giudizio obiettivo. Com’è questa Roma tardorinascimentale immaginata da Gilliam, sulla briosa e spumeggiante colonna sonora di Berlioz? Come secondo Wikipedia, si assiste anche qui ai consueti e fantasiosi anacronismi presenti anche nei suoi film, dove frequenti sono i salti avanti e indietro nelle diverse epoche storiche (si pensi al suo splendido I banditi del tempo, con Sean Connery, del 1981), spesso e volentieri mescolate e sovrapposte tra loro. Un enorme carcere piranesiano (più simile, però, alle rivisitazioni che ne ha fatto Vik Muniz con chiodi e fili neri) incombe sul fondale, come il tempo che stringe per la consegna del Perseo a Papa Clemente, in stridente contrasto con il Carnevale che impazza (i fatti narrati si svolgono tra il Lunedì Grasso e il Mercoledì delle Ceneri) e che esplode già nell’Ouverture, con l’ingresso a sorpresa del corteo mascherato in platea, dove sul pubblico piovono dal soffitto festosi e colorati coriandoli, colpo (gobbo) di teatro per captare benevolentia e buona disposizione all’applauso. Ma non è una provolonata: quello che l’incipit promette, lo spettacolo mantiene per quasi tutta la sua corposa durata, ed effettivamente di roba da vedere ce n’è e ne succede tanta, spesso incagliandosi là dove anche l’imperfetta macchina teatrale di Berlioz, prodigioso orchestratore e troppo innamorato della Musica, delle sue trame e dei suoi effetti, per preoccuparsi di una fluidità narrativa plausibile, arranca e fatica a scorrere. E la vision che Gilliam regala della "sua" Roma è affastellata di balie in gramaglie, mongolfiere, gendarmi in livrea, mascheroni macabri e scurrili, mignotte più dickensiane che capitoline, in una vorticosa girandola di sequenze di massa talvolta al limite del caotico, ma forse per via di una scarsa perizia del coro del Costanzi ad assecondare le concitate movenze desiderate dalla coreografia e dalla regia. Deve certamente, Gilliam, essersi rivisto e studiato i due film più eminentemente "romani" di un certo grande regista nostrano, Satyricon e Roma (direttamente citato nella scena dell’ingresso di Papa Clemente nell’atelier di Benvenuto, presa di peso dalla famosa sfilata di "moda ecclesiastica"), tanto da giustificare la felicissima battuta di un amico, seduto tra gli spettatori, che ha affettuosamente ribattezzato l’opera "Benvenuto Fellini"... E’ naturale che la lunga e complessa scena finale, quella dove su un crescendo per accumulo di suoni e situazioni Cellini e i suoi aiutanti riescono finalmente a fondere il Perseo, che Gilliam ha voluto enorme, spropositato, fuori misura, a giustificare e a premiare tanto impegno e tanto sforzo, culminata da una pioggia di coriandoli dorati, pendant dei coriandoli colorati dell’Ouverture, è stato, dell’intera rappresentazione, il momento più grandioso, la cui tensione già stemperata dalla festosa cascata di striscioline d’oro si è ulteriormente sciolta, a sipario calato, nell’entusiasmo di un pubblico in delirio generoso di applausi; ma quello che nel ricordo, almeno per il sottoscritto, resterà forse come il punctum della serata, là dove musica e regia si sono sposate in un felicissimo e raro connubio, è stata la rappresentazione teatrale "in piazza Colonna", evento culminante dell’ultima sera di Carnevale, che è il primo esempio di teatro nel teatro nella storia dell’Opera lirica: nelle piazze e nelle strade di Roma, fuori dei palazzi nobiliari dove Aristocrazia e Chiesa esercitano un potere a proprio esclusivo vantaggio, escludendo il popolo da qualunque possibile orizzonte politico (vi ricorda qualcosa?), la "gente" di Roma assiste a una tradizionale commediaccia erede delle farse sguaiate e dei fescennini licenziosi dell’evo antico, per dimenticare, ridendo alle battute sboccate e alle mimiche scurrili degli attori di giro, il peso e l’amarezza del vivere. Il che ricorda molto da vicino certi attuali prodotti cinematografici natalizi pensati apposta per intorpidire le coscienze in un’epoca che, come in quella papalina, sembra azzerare ogni eventuale illusione di riscatto sociale. È stato qui che le cupe e oscure volte a botte di Piranesi sullo sfondo hanno assunto la valenza simbolica di una cappa cucurbitacea, coperchio di un gigantesco pentolone in perenne ebollizione a fuoco lento, dove tutto è statico, immanente, gioco stanco e ripetitivo di una popolazione ridotta a marionetta e che non ha nessuna voce in capitolo. Roma: spacciata per eterna, ed eternamente spacciata, quella Roma che annoiò e deluse Berlioz, dove solo in un’opera di fantasia può avvenire che un artista in crisi riesca a superarla creando con fatica un proprio celebre capolavoro, che in realtà sta infatti a Firenze. Nella sua genialoide reinvenzione del Benvenuto Cellini di Hector Berlioz, Terry Gilliam ha centrato un bersaglio significativo: restituirmi l’immagine drammaticamente inerte della città dove vivo, intortarmi per quattr’ore con frizzi e lazzi di lusso, musicati da uno stupefacente e prodigioso orchestratore, per congedarmi turbato e, per quanto ancora piacevolmente stordito dal successo della serata, nuovamente consapevole, all’uscita del teatro, di ritrovarmi sotto l’immaginaria volta piranesiana di una cupa, fosca galera.


Benvenuto Cellini
Musica di Hector Berlioz
Regia di Terry Gilliam
Maestro concertatore e direttore d’orchestra Roberto Abbado
Orchestra e Coro del Teatro dell’Opera di Roma


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