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TFF ’05 - Concorso internazionale lungometraggi - Facevo er cinema

Pubblicato il 16 novembre 2005 da Edoardo Zaccagnini


TFF '05 - Concorso internazionale lungometraggi - Facevo er cinema

“Il cinema è una malattia mentale, inguaribile e contagiosa”. Lo dice un regista dimenticato, un uomo di certo cinema italiano nel documentario che a lui dedica Anton Giulio Mancino. Il ritratto è quello di Giancarlo Santi, sconosciuto a molti, collaboratore valido per Gian Vittorio Baldi e Marco Ferreri, amico e fedele compagno di cinema per Sergio Leone. “Sotto la barba può nascondersi un genio oppure uno stronzo”: altra sentenza provocatoria del Santi, che la barba ce l’ha, bianca, e ha pure occhiali robusti mentre si confessa con facilità di fronte al cavalletto del suo confessore. Ma uno stronzo non sembra, semmai severo e impulsivo in certe posizioni, ben in linea col target di cui è figlio e discepolo: quello delle romanità secche, abbondanti, a volte geniali. Forse il posto giusto di Santi è tra Sergio Leone, inteso come maestro ed artigiano, e Mario Brega, dal punto di vista del carattere pittoresco e di una certa inutilità artistica se si esce dal tipo fisso creato da Verdone e dalle comparse regalategli dal miglior spaghetti western. Santi racconta cinquanta anni di cinema italiano, di quello che ha conosciuto, dei pezzi che ha lavorato con le mani e con le gambe. Dice cose credibili e tristi, che una simpatia naturale rende ancor più malinconiche. Racconta la storia di un uomo alle prese con una macchina capricciosa, viziata, enorme ed egoista che l’ha ficcato sotto senza chiedere mai scusa, senza pronunciar parola. Solo dopo averlo sedotto, scopato, fatto innamorare ed incastrato per sempre. E’ un documentario di ricordi, qualche sana risata ed aneddoti, di un attacco coloratissimo verso Quentin Tarantino e le figure dei produttori in generale. Lo spettatore si accorge del personaggio e si diverte con lui, nella speranza di uno scoop privato che non tarda ad arrivare. I migliori sono due ma raccontarli è compito del film. Santi aspetta qualche minuto prima di parlare: si muove dentro le quattro mura di una casa modesta e guarda un western alla tv. Poi esce e parcheggia sui posti dove De Sica girò l’inizio di Ladri di biciclette. Oggi, alternati non solo per didascalia, alle immagini del capolavoro. L’effetto sul documentario è decisivo, Roma diventa co-protagonista e il racconto del regista parte da lontano, da quel luogo ormai mitico che è diventato il neorealismo cinematografico italiano. Il cinema fatto quasi per caso, da un esigenza più o meno conscia e senza troppi calcoli di presa, strategia o guadagno. In quel cinema, inteso come contesto produttivo, Santi ha iniziato a muoversi e da allora non ha più smesso, almeno fino a quando gli hanno legato le mani, tagliato la lingua. Non perché pericoloso, semplicemente perché lavoratore sostituibile, orpello di un sistema non sistema, di un affare privato del quale non è stato considerato parte. Rimane in lui un’adorazione per il talento registico di Marco Ferreri, la graditudine verso Gian Vittorio Baldi e tre film da regista tra cui Il Grande duello, con Lee Van Cleef, del 1973. “Un film non memorabile”, ammette il regista, “ma fatto con criterio, non un brutto film”. L’uomo di cinema parla fino al tramonto e certi suoi monologhi funzionano benissimo. Mancino lo ha seguito, o forse lo ha aspettato ma è riuscito a rendere il racconto simpatico, interessante e ben ritmato da una piccola regia indipendente dal personaggio che crea la cosiddetta atmosfera. Il ritratto è quello dell’uomo che faceva il cinema: lavoro, sicuramente più bello ma forse meno stronzo, forse.

Novembre 2005

Regia: Anton Giulio Mancino; Sceneggiatura: Anton Giulio Mancino, Giancarlo Santi; Fotografia: Luca Daddario, Roberto Basili; Interpreti: Giancarlo Santi, Produzione: Rosa Ferro, Nuovo Fantarca Onlus;


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