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The Evening Hour - Concorso

Pubblicato il 21 novembre 2020 da Francesca Pistocchi

VOTO:

The Evening Hour - Concorso

Come già si evince da un rapido sguardo al programma, la trentottesima edizione del Torino Film Festival apre scorci inattesi sul dissestato panorama americano contemporaneo: ad inaugurare le danze è proprio l’ultimo, travagliato lungometraggio di Braden King, regista e autore di video musicali dal passato tutt’altro che provinciale, qui impegnato in una dolorosa immersione nei suburbi boscosi del West Virginia. The Evening Hour, tratto dall’omonimo romanzo di Carter Sickels, racconta l’ora serale di un microcosmo ormai giunto ad un’infelice terza età. Fra le ombre claustrofobiche di Dove Creek, cittadina mineraria reduce dal suo irrimediabile declino postindustriale, la vita di Cole Freeman (Philipp Ettinger) sembra imboccare soltanto le strade sbagliate: operatore sanitario dal passato fosco, piccolo trafficante di antidolorifici per anziani, il giovane trentenne pare cercare disperatamente una via d’uscita dalla cava in cui si ritrova a vagare. All’interno di un tale limbo si aggirano fantasmi tanto ordinari quanto evanescenti: c’è Lacy (Kerry Bishé), ragazza madre rassegnata e barista per sbarcare il lunario, c’è la magrissima Charlotte (Stacy Martin), sorta di piccola groupie incline ad ogni dipendenza con la quale il protagonista divide il letto e qualche bevuta, ma soprattutto c’è Everett (Marc Menchaca), spacciatore di eroina nonché unico e solo padrone dei destini umani incrociatisi a Dove Creek. All’appello non manca nemmeno la diroccata costellazione familiare che circonda Cole: una costellazione rigorosamente al femminile e che comprende due generazioni di donne dalle sorti diametralmente opposte. Se la nonna Dorothy (Tess Harper) vive nel costante ricordo del defunto marito e pastore della comunità, la madre Ruby (Lili Taylor) porta sulle spalle l’imperdonabile colpa di essere sgattaiolata fuori dal buco. Il regista mette in scena i difficili rapporti che intercorrono fra genitori e figli in un Far West odierno ancora saturo delle orazioni e dei canti con cui l’America, in un tempo molto lontano e molto vicino, tracciò le sue prime fila.

Le giornate si susseguono fra il lavoro in clinica e le notti trascorse al saloon, il cielo sopra le rovine di cartongesso in cui tutti sono costretti ad abitare appare sempre grigio e spento, come se da un momento all’altro dovesse scoppiare un tremendo acquazzone. La tempesta, tuttavia, non giunge mai e lo squallido equilibrio locale rimane invariato. L’effetto è frustrante e ci porta ad accogliere bonariamente perfino il ritorno di Terry Rose (un acciaccato Cosmo Jarvis), vecchio amico (o nemico) di Cole dai modi loschi e dallo sguardo spento, pronto a sconvolgere la stasi perenne di questo sperduto villaggio. Terry sembra rappresentare un passato e un futuro davanti ai quali non si desidera altro che chiudere gli occhi: il suo arrivo, infatti, porta alla luce ulteriori spettri e il protagonista dovrà fare i conti con un’accidia mentale di cui egli, in fondo, non può essere l’unico responsabile. Così l’antica miniera e le sue foreste cominciano a vomitare ciò che fra i loro cunicoli ancora oggi si nasconde: sfruttamento, droga, isolamento, allucinazioni individuali e collettive derivate da una spiritualità ridotta a spauracchio sociale. L’omertà regna sovrana e si insinua pericolosamente nei ricordi di ognuno, tanto che alla fine ci chiediamo se i personaggi desiderino davvero la fuga o se, invece, non basti loro idealizzarla attraverso qualche cartolina ingiallita.

Per il nostro Signor Freeman dal nome tanto autoironico quanto fatale, il sogno dell’evasione prende svariate sembianze, fino a trasformarsi in un incubo: la voce perennemente impastata e la caparbietà tossica di Terry non fanno che ricordarci quanto in realtà sia impossibile scappare da un universo a pezzi. Nessuno abbandona i propri riti, la logica del compromesso logora qualsiasi iniziativa di mutamento e uccide le buone intenzioni sul nascere. Braden King costruisce un mondo a senso unico simile ad un cunicolo buio da cui Cole striscerà fuori soltanto se spinto da terze mani. L’improvvisa uscita dal traforo, tuttavia, non ci garantisce un lieto fine: possiamo soltanto intravedere il cielo rasserenarsi momentaneamente e udire, in lontananza, il motore del fuoristrada diretto verso (si spera) l’ignoto.


CAST & CREDITS

(The Evening Hour); Regia: Braden King; sceneggiatura: Elizabeth Palmore; fotografia: Declan Quinn; montaggio: Andrew Hafitz, Joseph Krings; interpreti: Philip Ettinger (Cole Freeman, Stacy Martin (Charlotte Carson), Cosmo Jarvis (Terry Rose), Michael Trotter (Reese Campbell), Kerry Bishé (Lacy Cooper), Marc Menchaca (Everett), Ross Partridge (Randy), Tess Harper (Dorothy Freeman), Lili Taylor (Ruby Freeman); produzione: Secret Engine, Truckstop Media; origine: USA 2020; durata: 114’.


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