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The Kindness of Strangers - Concorso

Pubblicato il 8 febbraio 2019 da Matteo Galli

VOTO:

The Kindness of Strangers - Concorso

Diciannove anni dopo Italiano per principianti, il film, girato secondo i principi di Dogma 95, che proprio a Berlino la rese molto celebre, valendole, fra gli altri, il premio della Giuria, e dopo aver girato almeno altri sei film, per lo più scritti da altri e basati su testi letterari (il più celebre An Education tratto da un testo di Nick Hornby), la regista danese sessantenne Lone Scherfig è tornata a scriversi un film tutto da sola che s’intitola The Kindness of Strangers e che ha avuto l’onore di aprire la 69esima edizione della Berlinale, l’ultima della gestione Kosslick. Diciamolo subito che si sono visti dei film di apertura, sul piano estetico, molto ma molto più stimolanti e avvincenti di questo, anche se negli ultimi anni ci siamo spesso ritrovati a chiederci il motivo della scelta operata dall’ormai settantunenne patron (tuttavia, giusto per restare all’anno scorso, Isle of Dogs era davvero di un’altra categoria). A ben vedere il film è, fatte le dovute differenze, una riproposizione dello schema di Italiano per principianti. Anche qui abbiamo un grappolo di personaggi, tutti, chi più chi meno, afflitti da angosce esistenziali o più semplicemente infelici e soli; la storia quindi per un po’ segue un andamento poliprospettico, fin quando tutte le vicende si coagulano per ulteriori agglutinazioni culminando nella scena finale in cui, come si conviene, tutti i personaggi principali si ritrovano allo stesso tavolo, in una cena che segna il trionfo della solidarietà, della gentilezza, dell’empatia e in un paio di casi anche dell’amore, perché di fatto si formano due coppie. Non siamo nella sperduta provincia danese ma siamo a Manhattan, rappresentata in tutta la sua - vista e rivista - verticalità alienante, ciò che rende lo stucchevole happy end e il trovarsi e ritrovarsi di queste persone ancor più miracoloso, visto il carattere tentacolare e disumano di quella città. Non è il corso d’italiano a fungere da collante facendo congiungere questi personaggi soli e tendenzialmente fottuti dalla vita, ma lo è un ristorante russo (The Winter Palace) in cui appunto finiscono per ritrovarsi tutti, una casa sostituiva di quella casa che, letteralmente, nessuno di loro ha più o ha mai avuto. La vicenda principale (anche in termini di minutaggio) in mezzo a una serie di altre racconta di una madre con due figli piccoli, in fuga da un marito, poliziotto violento che picchia madre e figlio maggiore, inducendo quest’ultimo a fare altrettanto con il più piccolo. La madre scappa dunque da Buffalo e approda a New York, senza soldi, senza casa, senza niente, l’unica cosa che ha è una macchina che ben presto le verrà portata via dal carro attrezzi perché parcheggia costantemente in sosta vietata, anche l’aiuto che auspicherebbe dal suocero si rivela illusorio – e allora eccola vagare per la città fra snack rubacchiati a ricevimenti per sfamare i pargoli, ripari di fortuna dal freddo (come si conviene siamo in inverno, si veda anche il nome del locale russo), la Public Library con i bambini svaccati sui tavoloni di legno esausti per la stanchezza, furti più consistenti ma casuali, e il padre che li bracca. Fin quando la donna a poco a poco non si imbatte, come in una fiaba, in una rete di benevoli aiutanti che, chi in un modo chi nell’altro, le darà una mano consistente a divincolarsi nei gangli della grande città, fra freddo e povertà: il simpatico e ben presto innamoratissimo cameriere ex galeotto del suddetto ristorante russo, una bionda infermiera ospedaliera à la Alba Rohrwacher, angelo del bene, che per soprammercato gestisce un gruppo di autoaiuto sul tema del perdono e una mensa dei poveri, un giovanotto, egli stesso homeless, che prontamente fa ricoverare il figlio piccolo semi assiderato in ospedale, l’avvocato che la patrocina e che fa mettere in galera il marito. In una drammaturgia in cui tutti alla fine incontrano tutti, dove il caso sempre benevolo la fa da padrone, il film sembra un inno alla creazione di una comunità solidale in opposizione alle strutture sociali (la famiglia, lo stato) che non sono in grado di fornire protezione agli individui e che anzi vessano il soggetto. La colonna sonora decisamente melensa ci mette del suo, anche la musica fintamente diegetica (l’albergo è guarda caso vicino a una sala da concerto) è fastidiosamente deittica: Ma Vlast (La mia patria) di Smetana quando la protagonista capisce che proprio quell’albergo è la casa che le darà la protezione che invano andava cercando altrove. Gli attori sono mediamente dignitosi, nessuno che spicchi in modo particolare, a parte il beffardo e sofisticato Bill Nighy nel ruolo di un anziano spiritus loci del ristorante che pur, americanissimo, affetta un accento russo che fa colore e attira clienti. Bill Nighy era uno dei protagonisti di Love Actually che è, a ben guardare, il vero modello del modesto film di Lore Scherfig, senza condividerne il ritmo e le prove attoriali.


CAST & CREDITS

(The Kindness of Strangers); Regia: Lone Scherfig sceneggiatura:Lone Scherfig; fotografia: Sebastian Blenkov; montaggio: Cam McLauchlin; interpreti: Zoe Kazan (Clara), Andrea Riseborough (Alice), Tahar Rahim (Marc), Caleb Landry Jones (Jeff), Jay Baruchel (John Peter), Bill Nighy (Timofey); produzione: Creativa Alliance, Kopenhagen Strada Films, Toronto origine: Danimarca, Canada, Svezia, Germania, Francia 2019; durata: 112’.


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