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The Oak Room - Le Stanze di Rol

Pubblicato il 28 novembre 2020 da Matteo Galli

VOTO:

The Oak Room - Le Stanze di Rol

Questa trentottesima edizione TFF non cessa di riservare sorprese, presentando sul finire una delle opere migliori di tutto il programma, un eccellente film noir, neo-noir, thriller che dir si voglia, The Oak Room , dal nome del locale in cui si svolge una parte, forse non la preponderante del film. Il regista è il canadese Cody Calahan che può vantare una non lunghissima filmografia ma un discreto credito nel campo del cinema di genere, un premio a Sitges per esempio, e due film ( Antisocial e Let Her Out ) sono usciti anche in Italia seppur solamente in blu-ray.

Dietro una struttura solo apparentemente cervellotica il film funziona alla perfezione come un intreccio e un generatore di storie, in cui i personaggi (sette, tre di loro in duplice versione, adesso e da giovani, interpretati da altri tre attori, dunque dieci, tutti maschi) sono produttori e ascoltatori di storie, a turno e in cui tutto (o quasi) finisce per essere intrecciato col resto e per trovare una spiegazione plausibile. Fatte salve pochissime scene, The Oak Room si svolge all’interno di due bar, quello di cui al titolo e quello in cui il film ha inizio, l’origine di tutte le storie, in cui il barman Paul incontra Steve (interpretato da RJ Mitte, il figlio di Walter White di Breaking Bad ) tornato a casa dopo un certo numero di anni. Il risentimento che Paul, amico del padre di Steve, defunto e sepolto in assenza del figlio, sembra dar vita a una vicenda paesana su genitori e/o figli anaffettivi o inadempienti, con Paul parecchio ma parecchio arrabbiato col figlio dell’amico, tanto da non volergli restituire gli oggetti appartenuti al padre conservati nella cantina del bar. E poi sembra esserci di mezzo anche una questione di soldi.

Ma questa storia dall’America rurale, forse neanche troppo interessante, che uno si sarebbe aspettato, non arriva proprio a compimento, in compenso ne arrivano molte altre soprattutto di Steve ma anche di Paul che ci riportano indietro al passato prossimo o al passato remoto e i cui protagonisti a loro volta raccontano storie al passato prossimo o al passato remoto. Ecco, queste storie, oltre a essere piuttosto sorprendenti, fanno sì che The Oak Room finisca per travalicare i confini del genere perché diventano da un lato una riflessione meta-narrativa su come si costruisce una sceneggiatura, sul rapporto fra racconto veridico e invenzione, e dall’altro il veicolo per negoziare il rapporto fra testo/racconto e visione, infatti: alcune storie vengono solo raccontate e altre, oltre a essere raccontate, vengono anche visualizzate, magari con qualche ellissi. Resta invece totalmente appartenente al noir o volendo al neo-noir - il film parrebbe presentarne le tipiche caratteristiche ovvero essere o sembrare quello che il teorico Thomas Elsaesser chiamava un “mind game movie” - e cioè: il setting claustrofobico: tutto dentro al bar, tutto di notte, fuori la bufera di neve, il grande Nord, fra Fargo e The Hateful Eight ; crimini e misfatti, veri o presunti, e pure alcuni (non troppi) effettacci splatter perché in questo film conta più che altro la parola, il racconto appunto, come all’alba dei tempi.

The Oak Room - Regia: Cody Calahan sceneggiatura: Peter Genoway; fotografia: Jeff Maher montaggio: Mike Gallant; interpreti: RJ Mitte (Steve), Peter Outerbridge (Paul), Martin Roach (Richard), David Ferry (Kenneth), Nicholas Campbell (Gordon), Agata Kulesza (Irena), Cédric Kahn (Michel), Jeanne Balibar (Juliette); produzione: Black Fawn Films, Breakthrough Entertainment; origine: Canada, 2018; durata: 89’.


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