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The woman who ran - Berlino 2020

Pubblicato il 26 febbraio 2020 da Matteo Galli

VOTO:

The woman who ran - Berlino 2020

2013, 2017 e 2020. Per la terza volta siamo a recensire un film di Hong Sangsoo. Nel 2017 riprendemmo buona parte della recensione del 2013, ricordando ai lettori alcune caratteristiche della sua produzione che da allora erano rimaste invariate. Lo rifaremo anche questa volta, aggiungendo fin da adesso che il film ci è parso più divertente e più interessante degli altri due che avevamo avuto occasione di vedere, pur nella permanenza di alcune caratteristiche di forma e di sostanza che almeno in parte qui ripeteremo.

Hong Sangsoo (1960) è, nel frattempo, regista di ben 28 film, nei soli anni ’10 ne ha girati 17, in alcuni casi tre all’anno. Hans Sangsoo è tipico regista di festival, fuori dal suo paese non ha praticamente distribuzione (con una parziale e temporanea esclusione della Francia che almeno per un certo periodo lo ha adottato). A Berlino è presente per la quinta volta, a Cannes ci è stato 9 volte, vincendo due volte il premio per la sezione “Un certain regard”, a Venezia due volte, a Busan gioca in casa e spopola: 6 volte e 6 volte ha vinto il premio della critica. Anche in questo film che reca il titolo internazionale The woman who ran (La donna che correva) il regista tiene fede alla sua fama di Rohmer coreano con le sue storie quotidiane, incentrate su piccoli eventi, stavolta senza l’ambizione riscontrata in occasione di altre sue pellicole di alludere ai Grandi Temi, ma accontentandosi delle piccole cose che racconta che non rimandano a nient’altro, anche in questo film la protagonista, fin dal titolo, è una donna, anzi sono donne. anche in questo film Hong Sangsoo ricorre, in funzione apparentemente espressiva, allo zoom, anche se poi appare difficile che cosa voglia esprimere con questo artificio, anche in questo film si parla, si parla, si parla, spesso in modo ridondante, si ha la sensazione che anche in questo film valga quanto il regista aveva dichiarato in merito al film del 2013 (e nel 2017), ossia che gli attori abbiano ricevuto ogni mattina il testo della parte che sarebbe stata girata quel giorno, che dunque anche in questo caso la sceneggiatura non sia esattamente da considerarsi il punto di forza.

Più ancora delle altre volte i dialoghi appaiono ridondanti, ripetitivi ma questo ingenera un (volontario?) effetto comico che non dispiace. Delle due l’una: o ci siamo abituati allo stile del regista oppure questo film rappresenta una importante variazione e/o arricchimento rispetto alla sua precedente filmografia. Noi crediamo che valga quest’ultima ipotesi: Proviamo a vedere in che senso alludendo a tre ordini di motivi: 1) come detto, il film rinuncia ad alludere ai Grandi Temi; 2) il sotto-testo, ma in alcuni casi direttamente il testo ironico appare più vistoso; 3) il non detto, il disturbo, le scorie del passato in mezzo a tante parole, appare più evidente.

Protagonista è la tipica donna di Hong Sangsoo, Gamhee (interpretata da Kim Minhee, che è al quinto film col regista). Approfittando del fatto che il marito, dal quale in cinque anni MAI si è separata perché lui vuole così perché loro così tanto si amano (la ripetizione ossessiva di questo dato non può non insospettire) Gamhee va a incontrare vecchie amiche. Gli incontri sono in tutto tre. Il primo con un’amica che convive con un’altra donna (non si capisce se abbiano un legame sentimentale) e si incentra quasi tutto su un pranzo e i commenti sulle abitudini alimentari. L’incontro e i dialoghi sono interrotti dall’intervento del vicino – la sequenza più esilarante dell’intero film – che si lamenta del fatto che le due donne danno da mangiare a un gattino che si aggira per il condominio. Lo zoom sul gatto al termine della lunghissima e alla fine inutile e compatibilmente con usi e costumi coreani aggressiva discussione merita da solo la visione del film. Il secondo incontro è con un’artista in un condominio non molto diverso dal precedente. E anche qui c’è un elemento di disturbo, anche qui costituito da un uomo che perseguita l’amica dopo che una notte sono finiti a letto insieme. Il terzo incontro è con un’altra amica che gestisce un bar con annesso luoghi espositivi, cinema e altro. Qui Gamhee, oltre a entrare per ben due volte dentro la sala cinematografica a vedere sempre la medesima scena, il mare increspato una volta in bianco e nero e una volta a colori, discute con l’amica a proposito del passato: si capisce che l’amica le ha sottratto l’uomo con cui stava, salvo poi a sua volta separarsene. Ed è proprio quell’uomo (un trombone sovraesposto nei media), in simmetria con gli altri due episodi, che compare verso la fine e con cui Gamhee ha un dialogo breve, imbarazzato e forse leggermente risentito. Si parla dunque molto di relazioni fra i sessi, di cibo (nonché di rapporto fra uomo e animale), si parla molto di alcol (sembra di avvertire in sottofondo una certa qual tendenza all’alcolismo da parte di alcuni) e infine colpisce la continua presenza di telecamere a circuito chiuso, un controllo continuo che ha qualcosa di inquietante. Abbiamo a che fare con un film a suo modo compiuto, anche se il titolo resta un mistero.


CAST & CREDITS

(Domangchin yeoja); Regia: Hong Sangsoo; sceneggiatura: Hong Sangsoo; fotografia: Kim Sumin; montaggio: Hong Sangsoo; interpreti: Kim Minhee (Gamhee), Seo Youngwha (Youngsoon ), Song Seonmi (Suyoung), Kim Saebyuk (Woojin); produzione: Jeonwonsa Film Co. Production, Seoul; origine: Corea 2019; durata: 77’


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