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Too old to die young (Stagione 1) - Teste di Serie

Pubblicato il 9 agosto 2019 da Stefano Colagiovanni
VOTO:


Too old to die young (Stagione 1) - Teste di Serie

«Mentre il mondo si spezza, qualcuno deve star qui a proteggere l’innocenza»
(Viggo)

Un temporale lontano

«L’arte è un atto di violenza». Parola di Nicolas Winding Refn, cineasta danese classe ’70, in assoluto uno dei migliori autori del grande schermo della sua generazione. E, dallo scorso giugno, anche del piccolo schermo. Perché dopo aver presentato in anteprima mondiale due soli episodi nel corso dell’ultimo festival del cinema di Cannes, su Amazon Prime Video è atterrata sul pianeta-serie Too old to die young, memorabilia thriller-noir che condensa in appena dieci episodi da un’ora e mezza l’uno – tranne l’ultimo, lungo una mezz’oretta scarsa – tutta l’essenza visiva, visionaria e sperimentale del suo autore. Too old to die young è Refn al suo oscuro splendore, lo zenith del suo percorso da cineasta, almeno al pari di Solo Dio perdona. Se non oltre…

L’arte come violenza. E la violenza come arte. Arte e violenza, insomma, come fulcro di un pensiero univoco, corpo e anima di uno stile cinematografico – qui non esistono differenze tra adattabilità tra grande e piccolo schermo – che si insinua sottopelle, fin dentro il cervello, gli occhi, lo stomaco, con lo scopo di artigliare la serenità e la pacatezza dello spettatore, per strappargliela via con furia indomita, provocando ansia, disagio e timore reverenziale.
Ma non è solo, Nicolas Winding Refn, spalleggiato da Ed Brubaker, uno che di cinema e fumetti se ne intende eccome. E il suo apporto in fase di scrittura è tangibile perché l’estro dello sceneggiatore prende corpo nella sua manifestazione “pulp”, burattinaio nero dalle mani sporche di sangue, che conosce a menadito i bassifondi e la selvaggia vita-sopravvivenza urbana, le leggi della giungla metropolitana innaffiata di neon che Refn gli mette a disposizione.

Già dall’incipit Too old to die young ipnotizza e si prepara a lacerare come una mantide nascosta nel buio. All’angolo di un isolato, due poliziotti sono in attesa, mentre la macchina da presa scivola sul lucido cofano di una volante, disegnando affascinanti geometrie al neon a richiamare una scia di sangue e noi a sentirne quasi l’odore metallico; uno dei due, quello con la lingua sciolta, sciorina sentenze sulla malvagità insita nelle donne, ne abborda una con il pretesto di controllarne i documenti, torna a telefono con l’amante-prostituta e, nel giro di qualche istante, viene freddato alla nuca da un ispanico dai tratti quasi androgini, alla ricerca della vendetta per la morte di sua madre; l’altro, Martin (un Miles Teller rigido e granitico, bello come Elvis e criptico come mai James Dean è stato) osserva in assoluto silenzio, giudicando con lo sguardo, a volte assente, altre no, nel tentativo finale di uccidere l’assassino in fuga del collega, senza alcun risultato.
Da questo evento si scatena come un temporale lontano Too old to die young: in dieci episodi scritti e costruiti come un thriller urbano tinto di nero, tra cartelli messicani e yakuza, uomini feroci e vendicatori sul ciglio della morte, chiaroveggenti e lolite, Refn smussa il suo cinema, si libera da ogni legaccio ed erutta sangue e violenza, pallottole e droga, fascismo e crudeltà, dolore e amore in un meccanismo cinematografico-televisivo-narrativo assolutamente perfetto.

Refn e il reale: morte, vita e ancora morte

Too old to die young é un progetto evoluto nella sua concezione di opera-contenitore, una creatura già mitologica che trasuda gloria, black humor e s’affaccia con convinzione sul palcoscenico di un’America troppo bianca, troppo nazionalista, troppo folle da sembrare vera: ne sono un esempio i teatrini dell’assurdo messi in piedi da un ambiguo capo della polizia di Los Angeles, dai sermoni proto-fascisti-razzisti di un predicatore nel bel mezzo della civiltà desertica, la furiosa e liberatoria vendetta del killer morente Viggo (uno struggente e strepitoso John Hawkes) nel penultimo episodio, quando rade al suolo a colpi di fucile un intero campeggio di neosuprematisti bianchi. Eccessi che diventano quotidianità, macabre esistenze descritte così puntigliosamente da divenire caricaturali, ma non macchiettistiche: su queste tonalità Too old to die young spezza un ritmo narrativo dilatato all’eccesso, alleggerendo con una struttura allegorica il male – reale – speculare al male – artefatto – partorito da esigenze di plot.

Mai come prima d’ora nella sua fulgida carriera, Refn ha osato raccontare la sua America, subdola e ferale: ne è l’esempio lampante il personaggio interpretato da William Baldwin, uomo folle e voglioso di mettere in mostra la sua follia, padre severo e morboso, un mostro alla luce del sole, perno attorno a cui ruota una società elitaria e cannibale, indolente ed effimera. In Too old to die young sono gli assassini i personaggi più umani, i narcotrafficanti i più vivi, mentre coloro che discettano di arte, che occupano senza patemi scrivanie e ruoli dirigenziali, coloro che vivono al di sopra della società terrena, indossano le loro facce mostruose con somma soddisfazione e depravazione. Refn e Brubaker mettono in scena un teatro degli orrori mondani, popolato da individui estranei a ogni concezione di normalità, alieni per quanto (dis)umani, ma tutti caratterizzati da una scrittura minimale e incisiva, vitali elementi di contorno per la storia, nella storia.

Una sequela di maschere spaventose che affiancano i protagonisti dell’intera vicenda. Ed è necessario parlare al plurale, perché in Too old to die young non esiste un solo personaggio principale, perché nessuno lo è: se Martin è destinato a morire perché inghiottito dalla sua stessa indole oscura e assetata di sangue – altro che il Dexter di Micheal C. Hall! -, surclassato da forze incontrollabili anche per l’acquisito diritto di sopravvivenza che addiviene a ogni protagonista che si rispetti, così il luciferino assassino Jesus (un Augusto Aguilera dallo sguardo che uccide!) è pronto a prendere il suo posto, privando Martin della sua anima, delle sue volontà, della sua vita; ma non è ancora abbastanza, perché la scena se la prende Yaritza (Cristina Rodlo, una che sembra racchiudere l’essenza primigena della femme fatale, trasportata nel mondo iper-violento, morboso e spregevole in cui soffrono i personaggi di Refn), la grande sacerdotessa della morte. Ognuno di loro è portatore di morte, araldo di un mondo disinteressato alla speranza perché fin troppo reale oltre ogni previsione: in questo senso, tra narcotrafficanti e pornografi, poliziotti corrotti e adolescenti libertine, Too old to die young proietta negli occhi dello spettatore soggiogato da tanta tetra bellezza il mondo così come lo vedono Refn e Brubaker, nemmeno troppo nascosto dalla luce del sole, verosimile perché popolato da individui schiacciati e vinti prima di tutto dalle loro stesse pulsioni, a cui, ovviamente, non possono resistere e, di conseguenza, impedire di essere condotti sulla via verso la morte.

Quello di Refn e Brubaker è un mondo oscuro, privo di buoni, privo di amore: c’è spazio solo per la violenza e i tornaconti personali. Difficilmente prima d’ora ci si era ritrovati dinnanzi a una tale carica di pessimismo trasportato in immagini.

L’importanza dei tempi morti

Se Too old to die young è un prodotto di eccelsa qualità visiva e narrativa, capace di esaudire tutti i più morbosi desideri di chi ricerca thriller e noir di un certo calibro, è quantomeno impossibile esimersi dall’analizzare – e apprezzare oltre ogni ragionevole dubbio – tutti i meccanismi sui quali Refn ha costruito una mastodontica cattedrale registico-spaziale, dai connotati sperimentali e – per quel che offre la televisione al giorno d’oggi – addirittura avanguardistici.

Come già compiuto da David Lynch con la terza stagione di Twin Peaks I - II, Refn si concentra sul tempo della storia e sul tempo del racconto non separatamente, ma tentando in ogni modo possibile di costringere entrambi a coincidere, perseguendo uno stile registico ossessivo, al limite dell’esasperazione emotiva e visiva. In che modo ci riesce? Filmando le attese, gli spazi vuoti e i “tempi morti”. Refn non ha mai fretta di mostrarci le azioni e le reazioni dei personaggi in gioco, così come non li spinge ad agire, semplicemente li coordina in un connubio perfettamente sincronizzato di azioni/reazioni che, non solo rendono i personaggi più reali, quasi tangibili e umani di quanto lo sono già – figli di una certosina fase di scrittura – ma permettono loro di imprimere a fuoco sullo schermo lo sguardo dello spettatore: la dilatazione temporale apparentemente spasmodica – in nessun caso da intendere in accezione negativa – di cui Refn fa uso prende possesso dei corpi dei personaggi, assimilandoli alla costruzione filmica di cui l’autore stesso non può farne a meno. Il cinema di Refn è un cinema costruito sulla preparazione al climax, un cinema accolito del cliffangher, un cratere nero pronto a eruttare sangue e violenza; ne sono la prova gli scarti furiosi con cui dirige le scene più efferate, dal primo omicidio di Martin, alla lunga sequenza dell’assassinio del pornografo, fino all’uccisione del padre-orco interpretato da William Baldwin e la memorabile fuga/inseguimento in auto in cui Martin tenta di salvarsi da morte certa.

Refn è autore colto e raffinato e Too old to die young si modella alla perfezione a immagine e somiglianza della sua arte, del proprio volere di fondere il fare cinema con una visione lucida, ludica e analitica della rappresentazione della violenza e del contesto in cui questa si manifesta; Refn è una sorta di Tarantino oscuro della sua generazione, un maestro del noir che, sicuramente, non sarà digerito da molti, ma che ha già troppe volte dimostrato la sua grandezza, una grandezza in grado di rielaborare lo stile di altri autori di culto – oltre al già citato Tarantino, è indispensabile annoverare almeno Micheal Mann, Brian De Palma, David Lynch e John Woo – dando forma a uno stile che strizza soltanto l’occhio al cinema di hollywood, ma che mantiene quell’essenza romantica di un certo cinema europeo e, ancor di più, orientale.
Un’opera d’arte televisiva. Uno dei picchi del piccolo schermo degli anni Duemila. A testimoniare che, ormai, la sottile differenza tra cinema d’autore e cinema d’autore in tv è più sottile e flebile che mai.

P.S.: Chi altri, poi, se non Refn sarebbero stati in grado di far recitare Hideo Kojima nel ruolo di un assassino della yakuza?!


(Too old to die young); genere: thriller, noir, crime; showrunner: Ed Brubaker, Nicolas Winding Refn; regia: Nicolas Winding Refn; stagioni: 1 (cancellata); episodi prima stagione: 10; interpreti principali: Miles Teller, John Hawkes, Jena Malone, Augusto Aguilera, Cristina Rodlo, William Baldwin, Nell Tiger Free, Carlotta Montanari, Joanna Cassidy, Babs Olusanmokun; produzione: Amazon Studios; network: Amazon Prime Video (U.S.A., 14 giugno 2019), Amazon Prime Video (Italia, 14 giugno 2019); origine: U.S.A., 2019; durata: 90’ per episodio; episodi cult prima stagione: 1x07 - Volume 7 - The magician (1x07 - Volume 7 - Il mago); 1x08 - Volume 8 - The hanged man (1x08 - Volume 8 - L?appeso); 1x09 - Volume 9 - The empress (1x09 - Volume 9 - L’imperatrice)


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