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Torino 36 - High Life - Festa Mobile

Pubblicato il 3 dicembre 2018 da Anton Giulio Onofri

VOTO:

Torino 36 - High Life - Festa Mobile

Tra le ghiotte occasioni che il Festival di Torino ha offerto, come d’abitudine, ai suoi accreditati e al suo pubblico di fedelissimi, il programma della 36ma edizione comprendeva High Life, presentato in prima italiana nella sezione ‘Festa Mobile’. Il primo lungometraggio in inglese di Claire Denis, che da quindici anni ci lavorava e andava sognandoselo in cuor suo prima con Philip Seymour Hofmann nel ruolo del protagonista, poi con Vincent Gallo, e alla fine con un Robert Pattinson di lisergica e straniante presenza scenica, ha gettato sul Festival un’ombra di cupa, dolente, rarefatta malinconia con la sua riflessione sulla condizione attuale di una specie, quella di noi esseri umani, giunta ad un turning point ormai ineludibile: quello che infatti è il bagaglio culturale e comportamentale di una civiltà millenaria come la nostra, e che già in passato la fantascienza – nel cinema come nella letteratura – ha tentato di analizzare come possibile nucleo propulsivo per nuove ere future di prosperità etica e morale, all’alba di questo primo quinto di un secolo che continuiamo a chiamare ‘nuovo’ rispetto a un ‘vecchio’ che ancora evidentemente ci ingombra e ci trattiene, viene in questo film scandagliato dalla Denis con la precisione di un entomologo incaricato di ridefinire spietatamente, oggettivamente, ma anche con grande e materna tenerezza, la mappatura sentimentale del genere umano.

High Life è, ebbene sì, un film di fantascienza. Ma in tempi di Interstellar o Arrival ne costituisce l’esatto, opposto specchio scuro, quel buco nero che tutto annulla, eppure è lì che tutti puntano, scrittori, sceneggiatori e registi, per andarci a trovare spiegazioni e rivelazioni sul destino dell’Umanità che luoghi più illuminati e apparentemente agibili occultano, o rendono illeggibili. Innanzitutto, High Life è un film che della fantascienza sbaraglia tutte le consuetudini e i luoghi comuni e più frequenti sullo schermo, adottando i segni riconoscibili del genere, come tute e caschi da astronauta, i fondali neri e puntinati di stelle dello Spazio profondo, gli interni e gli esterni di astronavi in volo verso chissà dove. Ma già dalla scelta geniale di affidare il design della nave spaziale ad uno dei più visionari artisti contemporanei, il danese-islandese Olafur Eliasson qui alla sua prima collaborazione con il cinema, è evidente come gli intenti della Denis siano ben altri: ci si ritrova in effetti all’interno di spazi, più che siderali, dell’anima, percorsi dalle angosce e dalle inquietudini di chi ha perso, di sé e della propria rotta, il baricentro, il timone, la bussola. Terrestri ergastolani o condannati a morte, cavie volontarie di esperimenti scientifici e disposti, in cambio di una promessa di libertà, a viaggiare nello Spazio verso mete inconosciute diventano, in High Life, i fantocci rappresentativi di una Umanità ormai alla deriva, incapace di dominare le proprie pulsioni e di darsene ragione e spiegazione, abbandonata a se stessa, intimorita da un futuro che appare sempre più nero e insondabile, ridotta ad assecondare esclusivamente, con fredda e animalesca determinazione, l’istinto più immediato e naturale, un eros svincolato dai sentimenti, gestito con modalità gestuali che non hanno più niente a che vedere con le regole e le convenzioni in vigore sul pianeta d’origine (la Terra), pretesto di studi ed analisi finalizzate alla ricerca di energie alternative fuori del Sistema Solare e a ricodificare nuove possibilità di vita in altri mondi, utilizzando i volontari come automi spersonalizzati, produttori di liquido seminale da introdurre in quel buco nero che segna il diaframma di confine tra una vita e un’altra, entrambe inutili, forse, culle di incertezze e panici esistenziali provocati dalla meschinità stessa degli umani.

La stilizzazione estrema delle inquadrature, la cautela dei movimenti di macchina, la cadenza ipnotica dei tagli di montaggio, l’uso dei silenzi e delle musiche (firmate da Stuart A. Staples) fanno della visione di High Life un’esperienza autenticamente vicina agli intenti della fantascienza letteraria, maggiormente attenta più che alle sequenze spettacolari di battaglie galattiche o scontri con mostri e popolazioni di altri mondi, alle pieghe più intime di metafore riconducibili alle condizioni di fragilità e debolezza degli esseri umani, eppure inoltrandosi verso nuove frontiere di un cinema al di là dei generi, in grado di fare dell’uso di corpi/volti noti e amati dal pubblico (in questo caso Robert Pattinson e Juliette Binoche) un ulteriore strumento di espressione per illustrare panorami sentimentali e orizzonti poetici raramente esplorati sul grande schermo. Un film, High Life di Claire Denis, che porteremo a lungo nel cuore e che aiuterà i più attenti e sensibili tra noi ‘spettatori’ delle cose del mondo a tracciare nuovi e sorprendenti sentieri nei futuri universi narrativi del cinema e dell’arte contemporanea.


CAST & CREDITS

(High Life); Regia: Claire Denis; sceneggiatura: Claire Denis, Jean-Pol Fargeau, Geoff Cox; fotografia: Yorick Le Saux; montaggio: Guy Lecorne; musica: Stuart A. Staples; interpreti: Robert Pattinson, Juliette Binoche; produzione: Pandora Film Produktion, Alcatraz Films; origine: Germania, Francia, UK, Polonia, Canada, USA, 2018; durata: 110’


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