X

Su questo sito utilizziamo cookie tecnici e, previo tuo consenso, cookie di profilazione, nostri e di terze parti, per proporti pubblicit‡ in linea con le tue preferenze. Se vuoi saperne di pi˘ o prestare il consenso solo ad alcuni utilizzi clicca qui. Chiudendo questo banner, invece, presti il consenso allíuso di tutti i cookie



Torino 36 - La Flor - Festa Mobile

Pubblicato il 8 dicembre 2018 da Anton Giulio Onofri

VOTO:

Torino 36 - La Flor - Festa Mobile

La Flor è un film argentino in 6 episodi della durata di 813 minuti, vale a dire poco più di 13 ore e mezza, diretto da Mariano Llinás. ‘Episodi’ non sta per ‘puntate’, dunque non è pensabile immaginare di vederlo come una serie tv, anzi, non esiste forse nient’altro che assomigli meno de La Flor a una serie tv divisa in episodi, stagioni, e via dicendo. Né i 6 episodi hanno eguale durata: ce ne sono, come il primo o l’ultimo, di più brevi, che durano tra i 40 minuti e un’ora e mezza, e di più lunghi, come il terzo, che da solo dura cinque ore e un quarto. Il Festival di Torino, cui va il plauso riconoscente per esserselo aggiudicato dopo il primo passaggio europeo al Festival di Locarno dove aveva destato immediata sensazione suscitando una meritatissima venerazione da ‘cult’, lo ha proposto in due formule, una più diluita, e un’altra in tre mattinate, ciascuna con inizio alle 9 e fino all’ora di pranzo già abbondantemente trascorsa. I sei ‘episodi’, come si è già detto, non sono consequenziali: raccontano ciascuno una storia a sé stante, ma sono vincolati insieme da un ‘senso’ illustrato nell’incipit dallo stesso Llinás che seduto in un’area di sosta di una strada camionabile traccia su un foglio di carta lo schema del film, un vero e proprio progetto a programma, come se Dante spiegasse con un grafico ai lettori della Commedia la sua visione dei cerchi concentrici del cono capovolto dell’Inferno, della piramide del Purgatorio, e dell’arcobalenata tribuna del Paradiso. Con un pennarello, Llinás disegna quattro petali, una corolla e un gambo, che formano un fiore, la Flor del titolo, dove ciascun segno corrisponde a un episodio. Il primo, il secondo, il terzo e il quinto sono quattro storie che omaggiano altrettanti diversi generi cinematografici: un horror di serie B (‘Quei film che gli americani di una volta facevano ad occhi chiusi, e oggi si sono dimenticati come si fa’), un musical condito di mistero, una spy-story, e un film muto in bianco e nero: nessuna delle storie narrate in questi quattro episodi ha un finale vero e proprio. Il quarto episodio, che inizia come finto backstage dell’intero film, si trasforma in una straordinaria cantica in lode della creatività cinematografica, su quanto realtà e fantasia coincidano o si allontanino nell’atto stesso di concepire una storia e nel metterla poi in scena, allestendole intorno un apparato di luoghi, corpi, simboli e richiami all’arte e alla letteratura, così come alla storia della cultura occidentale indagata nei suoi anfratti meno battuti. È, questo, l’episodio più diversificato e spezzato da digressioni che come voli pindarici vertiginosi incantano ulteriormente lo spettatore già di suo irretito da tanto abile ed estroso afflato affabulatorio; funge da corolla dell’intero fiore, e a due terzi del film contiene ed espone il manifesto ideologico di tutta la titanica impresa de La Flor. Infine il sesto ed ultimo episodio, il più breve di tutti, il ‘gambo’ del fiore, radice affondata fino a perdersi in un passato lontano intuibile attraverso un pesante e multistrato velo di ricordi che letteralmente ne obnubila, steso davanti all’obiettivo come un velo di Maya, la percezione limpida, così come fa il tempo che via via cancella, tenendone faticosamente in vita dettagli sempre meno distinguibili, il passato nostro e di chi ci ha preceduti. Di tutti gli episodi, tranne che del quinto (il film muto in bianco e nero), sono protagoniste le stesse quattro attrici, Elisa Carricajo, Pilar Gamboa, Valeria Correa e Laura Paredes, muse ed eroine al completo servizio dell’idea del regista, che cuce loro addosso sembianti e caratteri, essi stessi paradigmi esemplari dell’intimo significato della professione dell’attore.

Opera-mondo, compendio storico-letterario e artistico di un Occidente che nel passaggio da un secolo all’altro si è ritrovato ad affrontare scenari umani e culturali totalmente stravolti senza aver goduto del tempo necessario a metabolizzare tante rivoluzioni politiche, scientifiche e tecnologiche, La Flor prende dunque le mosse come uno smisurato omaggio ai differenti e più popolari generi del Cinema, non ricreandoli come parodia, bensì rivivendoli dal di dentro; il film di Mariano Llinás si impadronisce delle storie e delle atmosfere dell’horror, del thriller, del mélo, o della nostalgia delle pellicole sentimentali in bianco e nero di tanto tempo fa, aggiornandole alla sensibilità contemporanea con il preciso intento di andarle a recuperare in quella risacca dove la massificata bulimia di informazioni fornite da internet e la confusione tra modernità e postmodernità che tutto ha rimestato appianando e capovolgendo scale di valori su cui si fondava la misurazione etica del bello e del brutto, del giusto e dello sbagliato, le avevano relegate nell’imminenza di un reset che le avrebbe cestinate prima, e poi cancellate per sempre. Un impianto così maniacalmente ricalcato sulle rigorose ma anche fantasiose geometrie ‘aperte’, peculiari di tanta letteratura sudamericana (Borges, Cortazar...) intende ristabilire il metro perduto, ridisegnare le griglie su cui imbastire con riacquisita consapevolezza non solo le ‘storie’ da raccontare, ma anche la loro prima e imprescindibile fonte di ispirazione: la nostra vita. Quello che fu fin dall’inizio il progetto di qualsiasi creazione artistica e letteraria, l’invenzione inesauribile della fantasia di Sherazade costretta a inventare ogni notte una fiaba diversa innestandola nel racconto della precedente per tener sveglio il sultano e aver salva la vita, il rintracciare nel caos della realtà sensibile un gambo sul quale far fiorire il senso intimo di quattro, mille, milioni di storie nel tentativo di mantenere salda la rotta del nostro viaggio terreno, lo scopo, in una parola, del pensiero filosofico di ogni età e cultura del mondo: di tutto questo, La Flor di Mariano Llinás è il manifesto cinematografico più completo e categorico del secolo in corso, senza rinunciare alle esigenze di spettacolarità del racconto, al passo di una narrazione dal ritmo sostenuto e ineluttabile di una danza alternata sul filo di una fenomenologia che comporta aneliti in crescendo e fisiologici, catartici rilasci.

Impossibile, lo si ribadisce con perentoria convinzione, concepire la visione di un così vasto progetto sbocconcellata in segmenti televisivi da un’ora, o comunque dal taglio arbitrario, senza tener conto dell’accumulo, magistralmente ordito, di eventi che come massicci pietroni squadrati vanno via a via a edificare la piramide sentimentale del racconto; sarebbe come ascoltare il movimento di una sinfonia post-beethoveniana e interromperne l’ascolto a vanvera, in barba alla forma-sonata che ne scandisce e prevede lo sviluppo fino alla conclusiva compiutezza formale. L’horror del primo episodio, dove Llinás enuncia senza preamboli la propria poetica e la propria estetica di narratore per il cinema, scavalca ogni barriera del genere senza timore di disorientare lo spettatore fin dalla prime battute del film: l’uso del tutto anticonvenzionale della macchina da presa, del campo e controcampo, della messa a fuoco, sono come regole nuove categoricamente imposte con la tipica dittatura dell’Autore che voglia mettere subito in chiaro la propria estraneità a quelle consuetudini che ci hanno anestetizzato la percezione (e ci fanno scambiare per cinema un prodotto come le serie televisive, detestate da Llinás per sua stessa candida e condivisibile ammissione). Il vento di Roger Corman (ma anzi, e forse di più, di Mario Bava) che sibila durante il disturbante primo episodio, in cui una misteriosa mummia viene fatta recapitare in un laboratorio scientifico presso uno scavo archeologico, sembra inizialmente soffiare sul set di una telenovela di tanti anni fa, ma fin da subito, grazie al passo cinematografico ‘mai visto’ di Llinás, ci trasporta in una dimensione di inquietudine che non essendoci mai appartenuta ci investe con più violenza e ci proietta in un clima spaesante di inedita ansia esistenziale. La fine dell’amore della coppia canora dell’episodio 2, dove è la musica stessa a costituire il tessuto strutturale e narrativo dell’accumulo di eventi intrecciati con una stramba vicenda di scorpioni e miliardari assetati di superomismo, è senza dubbio il primo colpo al cuore di La Flor: i tempi del racconto si dilatano non certo per rallentarlo, ma anzi, al contrario, per riuscire ad ospitare tutti i nuovi ingredienti che per sovrapposizione aggiungono nuovi irresistibili elementi di seduzione cinematografica. I riferimenti, che sarebbe erroneo definire ‘citazioni’, a Douglas Sirk, Alfred Hitchcock, Joseph L. Mankievicz, l’Henry Georges Clouzot di Les Diaboliques, e allo stesso Pedro Almodovar, che in epoca postmoderna è stato il primo ‘recuperante’ del mélo hollywoodiano, non vanno letti come omaggi, ma come autentiche rigenerazioni di modelli da conservare e consegnare alle future generazioni, testimonianze di radici ancora presenti e fertili nella nostra cultura da opporre all’appiattimento e alla spersonalizzazione in atto in quest’era globalizzata. La vitalità ‘latina’ che oltretutto elettrifica il percorso del racconto invita lo spettatore a consegnarsi anima e corpo a una visione che da lì in poi stabilirà tempi e durate non più percepiti come limiti, ma come spazi necessari alla pura felicità di fruizione dell’opera, secondo un patto di reciproca complicità con gli spettatori che l’episodio 2 sancisce con prepotenza contagiosa. Questo almeno si è verificato a Torino, durante la proiezione dei primi due episodi, al termine dei quali si aveva la sensazione di essere diventati amici di tutti gli altri spettatori presenti in sala.

Poi arriva l’episodio 3, la ‘spy-story’, il più lungo e ‘multistrato’, comprensivo com’è di riferimenti evidenti al cinema di Quentin Tarantino e John Woo nella cornice di un polittico narrativo che abbina con più che benvenuta sfacciataggine, ma sempre genialmente reinventandoli e rigenerandoli, autori e modalità di racconto culturalmente e geograficamente eterogenei, utilizzando il collante della Letteratura: già, perché per mettere insieme i Wuxia e Chris Marker, John Le Carré e Cent’anni di solitudine, Raoul Ruiz e Manoel de Oliveira, lo Spielberg de Il ponte delle Spie e i grandi sconvolgimenti storici e politici della Storia dell’ultimo quarto del secolo scorso come la Rivoluzione Sandinista, la Guerra delle Isole Malvinas e il crollo del Comunismo Sovietico, Llinás adotta uno script di altissima qualità letteraria affidato a una voce fuori campo che ha il maestoso incedere di un fiume in piena, travolgente come un treno, ineluttabile come il destino che tutto trascina con sè, amori inconfessati e impossibili, disillusioni e tradimenti, mentre il suo cinema riserva sorprese continue di invenzioni e soluzioni narrative abbaglianti, emozionanti, avvincenti come un racconto che somigli, nel riesumare avvenimenti dalle vite degli altri, al racconto della nostra vita, che è poi il compito primario della grande arte del romanzo, in qualunque lingua sia scritto e a qualunque cultura appartenga.

Nella terza mattinata, a Torino, si sono poi visti gli episodi 4, ovvero la corolla del ‘fiore’, il 5, cioè il quarto petalo, e il 6, il gambo. Fingendo il backstage di dello stesso La Flor, mascherato sotto il titolo di La Araña (‘Il Ragno’), diretto da un dispotico e isterico regista che ha le sembianze di un Kubrick sovrappeso alla ricerca del giusto libro da cui trarre il suo horror che poi sarà (forse) Shining, l’episodio ‘corolla’ è una splendida digressione sul mistero dell’ispirazione che è alla fonte della Letteratura e del Cinema, dell’attrazione fra i sessi, della follia che le anomalie della finzione possono provocare in chi ci lavora e vi impiega le proprie energie: è l’episodio più squisitamente letterario, che contiene un’appassionata ode al libro come oggetto di collezione, strumento indispensabile di conoscenza e approfondimento, tra i momenti più ispirati di tutto il film, corredato di squarci lirici e ulteriori digressioni a finestra (l’interludio di Casanova!) che si aprono e si richiudono senza soluzione di continuità nel flusso ininterrotto che a questo punto della visione – si è arrivati alle 12 ore o giù di lì – ci è entrato in vena come una benefica trasfusione rigeneratrice. Ma è nell’episodio 5, l’ultimo petalo, la quarta delle storie destinate a restare sospese e inconcluse e unico dei sei non interpretato dal quartetto di attrici degli altri cinque, che si verifica il cortocircuito più compiuto di tutto l’esperimento de La Flor: azzerando ogni spazio-temporalità divisoria tra il nostro e il tempo perduto perché definitivamente trascorso e macinato dalla Storia e dalla Cronaca, ma miracolosamente recuperato e stigmatizzato con la ricostruzione della fiction letteraria e cinematografica, Llinás si concede l’azzardo di continuare a giocare con lo stesso tempo del Cinema, appropriandosi di Une partie de campagne di Jean Renoir per riallestirlo con nuovi attori nell’Argentina moderna decolorata nell’algido e atemporale bianco e nero digitale. Per accentuare la distanza da un mondo definitivamente inghiottito nella memoria di un’umanità che ormai non può più riviverlo attraverso il racconto di chi era vivente ai tempi (il film originale fu girato nel 1936 ma uscì dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale), Llinás azzera anche l’audio, trasformando l’idilliaca e libertina gita campestre dell’antica pellicola in un impossibile film muto (negli anni ’30 il sonoro era ormai radicata consuetudine, al cinema), come visto al di là di un vetro talmente spesso da isolarne ogni effetto sonoro. Il baratro del silenzio è assordante, e amplifica con un horror vacui anomalo per la sala cinematografica la percezione di qualcosa di ormai inattingibile se non attraverso il gioco del Cinema, che rispunta a sorpresa nella sequenza degli aeroplani commentata dalla colonna musicale originale del film di Renoir, perfettamente sincronizzata, per magia del tutto casuale, con i volteggi acrobatici dei biplani in volo. Infine il sesto ed ultimo episodio, del quale è impossibile dire senza spoilerare il miracolo della sua realizzazione: in un paesaggio brullo e primitivo che sembra animarsi da antichi dagherrotipi originali freschi di esposizione ai vapori di sodio che conferisce alle immagini una luce sabbiosa e serotina simile a quella dei dipinti di Puvis de Chavannes, si aggirano quattro donne in fuga da un villaggio di nativi americani verso un orizzonte di libertà per risorgere e procreare nuova vita. Il cinema risale direttamente alle sue origini primordiali, quando per la prima volta l’occhio di chi desiderava fissare su un supporto fisico le immagini della realtà sensibile per conservarne la testimonianza, dovette ricorrere a una camera oscura. Ed è infatti con una autentica camera oscura che il viaggio delle quattro donne è stato eroicamente filmato sfidando le difficoltà tecniche e pratiche di una così delicata e complessa apparecchiatura, come svelato al termine del film prima della vastissima sequenza dei titoli di coda (lunga i suoi buoni 40 minuti…),

Impresa titanica, si diceva, La Flor di Mariano Llinás, che richiede un’altrettanto coraggiosa disponibilità a un pubblico da individuare tra chi non considera certo il cinema esclusivo intrattenimento formattato entro il canonico paio d’ore, ma anzi lo vive come creazione dell’arte contemporanea svincolata da ogni tipologia di ‘confezione’ e palinsesto. Da qui il successo che il film ha ottenuto, a Torino come già a Locarno, presso un nutrito manipolo di giovani entusiasti, abituati a concedere a uno schermo un’attenzione non necessariamente quantificata se non fino a quando lo ‘spettacolo’ sia in grado di catturare e interessare, come la lettura di un volume di tremila pagine o l’ascolto di un’opera di Wagner, al termine dei quali, come dopo un rito, ci si ritrova diversi, purificati, migliori, appagati, o stimolati a nuove sfide e conquiste. Quello che indubbiamente costituisce uno dei più vistosi meriti del lavoro di Llinás è l’indicare quanto sia importante mantenere ben teso il filo che ci lega al passato, remoto e recente, della storia della narrativa in ogni sua forma e aspetto, dal poema epico al romanzo, dai dipinti alla fotografia, dall’opera lirica al musical, dal cinema dei Padri a quello dei Maestri, perché è là che si cela il segreto della tenuta drammatica e della forza espressiva della produzione attuale, comprese le serie tv così invise a Llinás, il quale tuttavia rende loro omaggio scegliendo di raccontare quattro storie senza una fine, spezzate da intervalli corredati dal cartello ‘continuarà’ (continua, à suivre, to be continued…), così come nella vita reale niente mai veramente finisce. Spezzare quel filo, come purtroppo è accaduto in molti, troppi contesti culturali odierni (l’Italia post-berlusconiana ne è forse l’esempio più drammatico), significherebbe annichilirsi, paralizzarsi nell’adorazione di fantasmi devitalizzati, e ritrovarsi incapaci di raccontare nuove storie, nuove fiabe, nuove mitologie in una lingua altrettanto nuova, originale e potente. Come invece fa La Flor, film miracoloso realizzato da un cineasta coltissimo e dotato di un magistrale senso del racconto per immagini, che ha saputo coinvolgere nell’ambizione smisurata di un progetto così ardimentoso un’eroica schiera di attori, tecnici e collaboratori tra i quali va citato, con menzione speciale e attribuendogli buona parte della riuscita del film, il compositore della colonna sonora Gabriel Chwojnik: presente con calibrata ma senz’altro voluta ingombranza, la sua musica concepita per tutte le diverse sezioni di una moderna orchestra sinfonica scandisce, sostiene, scalda, frusta e accarezza le storie de La Flor con l’asciutta efficacia di chi, fedele alla lezione di Bernard Herrmann, giocando con le note nascoste nel nome B-A-C-H ha saputo fornire ad immagini ora crude, ora sciatte, ora struggenti ed eleganti, ora sature di latina spavalderia l’universo sonoro ideale in simbiosi adesiva con la visione del mondo e la colta sensibilità di questo nuovo, grande Maestro del cinema contemporaneo: Mariano Llinás.


CAST & CREDITS

(La Flor); Regia: Mariano Llinás; fotografia: Agustín Mendilaharzu; montaggio: Alejo Moguillansky, Agustín Rolandelli; musica: Gabriel Chwojnik; interpreti: Elisa Carricajo, Pilar Gamboa, Valeria Correa, Laura Paredes; produzione: El Pampero Cine; origine: Argentina, 2018; durata: 813’


Enregistrer au format PDF