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Ugo, nessuno e centomila

Pubblicato il 17 ottobre 2004 da Alessandro Izzi


Ugo, nessuno e centomila

Pirandello ci ha insegnato, attraverso i suoi romanzi, le novelle e, ancor più nel teatro maggiore, l’ineffabilità sublime e tragica implicita nell’apparentemente incontrovertibile concetto di identità personale. Chi siamo noi realmente? Quella persona che ci guarda dalla fredda superficie di uno specchio tutte le mattine? Oppure quella riflessa nell’occhio degli altri? Abbiamo davvero, insomma, un’identità definita (che può essere, in fondo, l’immagine che ci siamo fatti di noi stessi nel corso della nostra esistenza) o non siamo piuttosto la somma delle immagini e delle idee che gli altri si fanno di noi? Pirandello rispondeva con una massima assoluta che è anche il titolo del suo romanzo forse più famoso che noi non siamo altro che Uno, nessuno e centomila. L’uno è quel noi stessi che ci siamo costruiti intorno, quasi una monade isolata, distinta dal resto del mondo. I centomila sono le immagini che gli altri hanno di noi. Il nessuno è, forse, il nostro essere più profondo perché se possono esistere tanti io quante sono le persone che lo guardano, allora, necessariamente, non può esistere nessun io come identità separata. Anche se di cinema Pirandello ha parlato solo ne I quaderni di Serafino Gubbio operatore (romanzo per molti aspetti minore), in effetti è tutto il suo sistema filosofico, fortemente debitore delle idee di Bergson, ad essere imbevuto del concetto stesso del cinema. Perché, in ultimo, la nostra identità non è che immagine e poco importa se essa passa attraverso la luce di un proiettore o meno. Con una differenza con il cinema, come per il teatro, quella che abbiamo di fronte non è solo l’immagine di un uomo, ma è l’immagine di un attore che finge di essere un’altra persona. Cosa vediamo allora? L’uomo o i suoi personaggi? E cosa succede quando un attore riesce a diventare così camaleontico da poter interpretare mille ruoli, ma riesce, al tempo stesso a mantenere ferma un’immagine di sé così potente da rimanere sempre riconoscibile per il pubblico anche nella totale irriconoscibilità dei ruoli che ricopre? Questa domanda è implicita già nel programmatico titolo del bel documentario passato su Sky recentemente: Ugo, nessuno e centomila. Chi è stato davvero Ugo Tognazzi? Quell’attore che diceva che degli unici tre motivi per continuare a fare l’attore ricordava solo il primo (i soldi) mentre aveva dimenticato gli altri due? O quello che, per estrema generosità verso registi esordienti o sfortunati (come Pupi Avati) accettava di interpretare un ruolo quasi a costo zero? E più ancora: Che differenza c’è tra l’Ugo uomo e i suoi infiniti personaggi (solo al cinema ha ricoperto non meno di centosessanta ruoli differenti)? E il conte Lello Mascetti di Amici miei è davvero qualcosa d’altro rispetto al Tognazzi che si illuminava alla vista della figlioletta MariaSole che lo andava a trovare sul set secondo il racconto commosso e divertito di Milena Vukotic? Impossibile dare una risposta a questa domanda, come dimostra il fatto che tra le persone intervistate cui è stata posta la domanda su quale potesse essere il personaggio più rappresentativo dell’uomo Tognazzi, ognuno ha dato una risposta differente. Siamo centomila, ci ha detto Pirandello, ma sembra aggiungere Ugo, quasi in postilla al romanzo pirandelliano, quando si è attori di tale portata di incarnare per quasi un quarantennio l’Italia e gli italiani forse bisogna elevare quel centomila all’ennesima potenza. Perché Ugo è stato certo un padre affettuoso (e qualche volta assente) per i suoi figli, un cuoco sopraffino innamorato della sensualità stessa della cucina, uno sportivo spiritoso e un uomo elegante, ma attraverso il cinema è stato anche molto più che questo. Impaginato come documentario televisivo di stampo abbastanza classico, questo bel lavoro di Massimo Ferrari e Katia Ippaso, aspira a qualcosa di più che essere semplice opera di informazione e si lascia apprezzare per il montaggio serrato delle interviste, per i siparietti (forse un po’ modaioli) che separano un capitolo dall’altro e, soprattutto per il sotterraneo senso di nostalgia verso un cinema che non c’è più. Se proprio un difetto dobbiamo cercare in questo lavoro è in una promessa mancata che sta proprio tutta nel titolo. Nella visione di Ugo, nessuno e centomila, infatti, sentiamo molto bene il coro dei centomila sguardi sull’uomo e sull’attore, presentiamo, ma non possiamo naturalmente vedere fino in fondo quell’Ugo che resta monade inconoscibile, ma non abbiamo alcuna percezione di quel nessuno che è la tragedia profonda del nostro essere al mondo. Forse troppo presi dall’idea di una visione esaltante del percorso di un attore mito, gli autori non hanno voluto superare davvero la dimensione del documentario televisivo per raggiungere quell’oltre del pensiero e della filosofia.

(Ugo, nessuno e centomila) un programma di Massimo Ferrari e Katia Ippaso direzione artistica: Barbara Calabresi regia: Massimo Ferrari editing: Gustavo Alfano produzione: Maria Vittoria Patisso per Cinecittà entertainment e Sky Cinema

Messa in onda: martedì 5 ottobre Rete: Sky cinema classics orario: 19:45

[ottobre 2004]


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