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Umberto Eco non è morto

Pubblicato il 21 febbraio 2016 da Alessandro Izzi


Umberto Eco non è morto

Umberto Eco non è morto.
Smettete dunque di scrivere necrologi sui giornali, di condividere stati su Facebook (e lo avrebbe fatto incazzare non poco, questo inesausto cicaleccio in cui gli scemi del villaggio si sentono uguali ai premi Nobel) e di ripetere che la cultura italiana è oggi ancora più povera perché ha perso l’ultimo grande intellettuale che le restava.
Umberto Eco non è morto per la semplice e ottima ragione che non può morire e sarebbe davvero un’assurdità pensarlo.
Certo può morire l’uomo e ci rattrista l’idea che non lo si possa più incontrare per strada, andando a far colazione in qualche bar vicino al castello sforzesco di Milano.
Può morire l’individuo e ci stringiamo in coro alla famiglia che sperimenta per la prima volta un vuoto che non ci è difficile immaginare incolmabile.
Può morire, forse, l’accademico e ci si si fa un groppo in gola al pensiero che non ci sarà più quel docente mirabile che teneva lezioni straordinarie che ti aprivano la mente come un apriscatole.
Può morire anche lo scrittore, il sociologo, il semiologo, l’esperto di media, ma Umberto Eco, lui semplicemente non può morire.
Non può morire perché Umberto Eco è stato ed è una di quelle persone il cui capitale intellettuale è tale che non solo si identifica ormai con la firma (che è eterna), ma che resta indipendentemente dal passare delle stagioni e del tempo che tutto ingoia nelle notti dei monumenti funebri di Canova.
Un ragionamento del genere, sull’immortalità della firma, lo faceva lo stesso Eco quando anni fa si rivolgeva a Carlo Maria Martini in una serie di lettere sul tema di laicità e fede, ostinandosi, nelle intestazioni delle missive, a rifiutare ogni riferimento alla veste e alla funzione dell’uomo perché ci sono persone la cui levatura supera di colpo la stessa posizione che occupano, lo scranno su cui siedono, il paramento che la posizione impone loro.
Motivo per cui si parla di Sant’Agostino e non del “signor Vescovo di Ippona” perché il filosofo di Tageste, il pensatore cui dobbiamo tutto il nostro modo di pensare, il faro che ci ha guidati sin qui per le perigliose vie della Storia e da cui ancora possiamo dire di aver imparato troppo poco, ha superato di troppo la semplice contingenza storica che l’ha visto esercitare la sua funzione di pastore di anime. In fondo di Vescovi di Ippona ce ne sono stati tanti, di Sant’Agostino uno solo.
E, continuando un po’ oltre sul ragionamento di Eco, davvero sareste capaci di dire che Sant’Agostino è morto?
Un’affermazione del genere è, in fondo, tanto ovvia, quanto sbagliata. Perché se è vero che non c’è più l’uomo, nondimeno siamo ancora sedotti e sconcertati dalla profondità del suo intelletto e dalla modernità delle sue idee. Così, allo stesso modo, anche Umberto Eco che si è spento ieri, in verità non è morto perché le sue argomentazioni continuano, come un eco (che sublime nomen omen) a riverberarsi nel piano del dibattito culturale. Restando forti. E vive. Eco a loro volta di altre voci del passato che venivano riprese, rimodulate, rilanciate nel presente. Presentimenti forti del futuro.
Il nome di Umberto Eco resta per sempre ancorato a un numero impressionante di riflessioni sul senso stesso del dibattito culturale che hanno un’attualità bruciante in questo periodo di confuso cicaleccio dove l’amore per l’opinione sembra voler prendere il sopravvento anche sul senso stesso della forza delle Idee. Il suo amore per il medioevo, di cui l’accademico Eco è stato fine studioso, ha prodotto un ripensamento complessivo sul senso stesso di quel periodo storico e di quella cultura che va ben oltre le pagine romanzesche de Il nome della rosa (massacrato al cinema da Annaud) e Baudolino. I suoi romanzi porteranno ancora in alto sulla copertina il nome del loro autore, restando incontestabili attestazioni di una prosa elegante, vecchia e nuova, moderna nel suo anelito a un italiano forbito, raffinato e continuamente risuonante di suoni rotondi e dolci che può produrre solo un grande innamorato della parola.
Il tutto nella lampante e vivida dimostrazione che i libri non sono oggetto destinato a prender polvere, ma cose vive, bellissime e temibili, capaci addirittura di uccidere i lettori che ne sfogliano le pagine con trepidante senso di scoperta. Realtà magiche, che dagli scaffali si parlano l’un l’altra in un continuo dirsi mentre il lettore decide, a suo rischio e pericolo, se accettare il gioco e lasciarsi irretire dalla sirena o rifiutarlo trasformando così la parola in niente più che carta macchiata d’inchiostro. Libri che hanno un senso e un destino indipendentemente dalla volontà dell’autore che, certo, muore, con l’età e che mai avrebbe immaginato che le sue parole potessero prendere una strada tanto diversa dalla loro iniziale intenzione. In questo senso nessun autore ha mai cantato tanto, in saggi di intramontabile bellezza, il silenzio carico di dialogo delle biblioteche, svettanti cattedrali di un sapere che nasce dalle congiunzioni più incredibili.
E la scoperta più paradossale è vera che Eco ci aiutato ad esperire non è tanto che si possa trovare Aristotele in uno scrittore del cinquecento, ma che ci sia un pizzico di presente anche nel più antico degli autori perché la comunicazione tra le pagine non è mai a senso unico e il pensatore del passato deve essere in grado in qualche modo misterioso di cogliere anche il riverbero di una voce di futuro che pre-sente nell’eterno ora del fatto culturale.
Per questo ancora Umberto Eco non è morto e non lo sarà finché noi lo si vorrà ascoltare mentre, divertito e intelligente come sempre, continua a raccontarci. E continuerà a scrivere nei libri che verranno esattamente come ha scritto nei libri che l’hanno preceduto, se solo noi si continuerà a voler essere lettori ideali del suo dialogo con noi e con il resto del creato.
Umberto Eco è vivo e sta a noi continuare a mantenerlo in vita. Sta a noi non ucciderlo in quel cicaleccio inconcludente e mass mediatico che è peggio del silenzio. Sta a noi lasciarlo tra le stelle a ragionar con loro di quel che siamo e che continuamente diventiamo.


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