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Un minuto di silenzio per la musica

Pubblicato il 20 maggio 2003 da Alessandro Izzi


Un minuto di silenzio per la musica

Negli ultimi anni la vita musicale italiana è stata, già da sola, una sorta di immensa e tragica dissolvenza su nero. Schiacciata, nelle scuole, dai sempre più abnormi rigiri della riforma Moratti, offuscata dalla chiusura delle orchestre stabili, discacciata nelle più improbabili fasce d’orario dei palinsesti televisivi e ridotta ad un esistenza precaria, schiava del generico random di un lettore CD senza anima, nelle reti radiofoniche, la musica è, per l’italiano medio, una sorta di chimera quasi invisibile. Ma da oggi, 27 maggio 2003, la musica italiana è molto più triste e desolata, molto più scura e dolorante, perché, con la recente morte di Luciano Berio, spentosi in un ospedale questo pomeriggio, viene a mancare una delle poche figure emblematiche di questo secolo. Quello che si è spento non è soltanto un compositore di genio, ma una delle menti musicali più importanti che abbiano mai calcato le scene culturali della nostra penisola. È a partire dalla seconda metà del secolo che Berio comincia ad imporsi come una delle voci fondamentali di un rinnovamento musicale che sembra destinato, purtroppo, a non avere un seguito immediato. Nel corso di una carriera quanto mai multiforme, Berio ha prodotto un numero di opere forse non enorme (specie se paragonato al corpus di compositori del passato), ma capace di abbracciare tutti i generi possibili dal bistrattato concerto solistico (Points on the curve to find... e la sua derivazione diretta Echoing curves sono di fatto due concerti per pianoforte), ai canti (le serie di Folk songs che rivelano un interesse non comune nei confronti delle potenzialità della voce umana), all’opera lirica (con delle vere e proprie azioni musicali di grandissima efficacia), fino ad arrivare ad arditissime opere sperimentali per strumenti monofonici che vengono piegati, grazie ad un’esasperazione delle possibilità dell’esecutore, ad un vero e proprio ascolto polifonico (la serie delle Sequenze). Il teatro resta la chiave di volta per comprendere fino in fondo la complessità dell’opera beriana. È certo teatrale (e non solo per il ricorso ad un vero e proprio libretto, ma per la sapiente scrittura gestuale della musica che accetta anche parti quasi aleatorie) la struttura segreta di un’opera come Laborintus II su testi di Sanguineti che rielaborano la bellezza dei versi della Vita Nova di Dante. È teatrale la gestualità dei pezzi della serie delle Sequenze (si pensi anche solo alla Sequenza numero 7 per oboe che, con arditezze esecutive come i cambi di diteggiatura su una nota, o i trilli con microintervalli, abbandona per sempre ogni svenevolezza melodica da sempre attribuita allo strumento). Ed è teatrale anche un’azione scenica come Un re in ascolto, splendida rielaborazione ad opera di Calvino della Tempesta di Shakespeare. Negli ultimi anni della sua vita Berio ha gestito la vita musicale di Santa Cecilia trasformando l’accademia in una delle poche oasi felici della travagliata vita musicale della penisola. Ma a parte questo è stato capace di riappropriarsi sempre più della storia musicale italiana (e non solo) con una serie di trascrizioni da opere di Monteverdi (a conferma di una passione non comune per la musica vocale) o di Mahler. Di segno diverso è invece la sgargiante opera di restauro portata avanti, nel 1990, per la Decima sinfonia incompiuta di Franz Schubert (Rendering). All’opposto di Newbould che, lavorando sugli stessi schizzi che il compositore tedesco andava accumulando, sul finire della sua vita, in vista di una vagheggiata grande sinfonia, aveva scritto un’opera compiuta inventando ponti e transizioni, Berio, illuminato da una diversa idea di musica, si limita ad orchestrare con straordinaria ricchezza polifonica gli abbozzi schubertiani utilizzando come collante una musica/non musica lontana, in pianissimo che è una riflessione polifonica sulla musica di Schubert. Dichiara Berio che: “Lavorando sugli schizzi di Schubert, mi sono proposto di seguire, nello spirito, quei moderni criteri di restauro che si propongono di riaccendere i vecchi colori senza però celare i danni del tempo e gli inevitabili vuoti creatisi nella composizione”. Il vuoto più grande, oggi, è quello della sua dipartita. Non basterà una mano di stucco a coprire una perdita che, nei convulsi frenetici ritmi dell’informazione, avrà meno eco della finale di coppa tra Juventus e Milan, ma il rispetto per la musica e la cura amorevole con cui Berio ha sempre cercato di preservarne i frutti dall’usura e dall’eccessiva facilità di consumo dei nostri giorni bigi, sono certo le cose che ci mancheranno più di questa figura poliedrica e rara.

[maggio 2003]


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