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Valentina Marino, una voce jazz

Pubblicato il 3 febbraio 2016 da Alessandro Izzi


Valentina Marino, una voce jazz

Suadente voce di velluto quella di Valentina Marino. Una voce che viene da lontano (da Mazzara del Vallo, per essere precisi) e che si propone di andare altrettanto lontano o, perlomeno, di restare lì dove ha trovato una sua seconda casa, forse addirittura più adatta della prima: New York.
Nella Grande Mela, in fondo, la cantante italiana ha trovato esattamente quello che stava cercando: lo spazio ideale per annodare le proprie radici melodiche e il proprio estro esecutivo tipicamente italiano al forte, corposo bisogno di jazz che sostiene la sua anima.
Quale posto, allora, meglio di New York per una contaminazione tanto strana e, però, tanto naturale quando la si ascolta sulle incisioni che ha da poco raccolto in un album?
La città magnificata da Woody Allen, in fondo, segna davvero lo scenario ideale per una riflessione esecutiva che ha tutti i caratteri di una grande originalità.
Una qualità zingaresca che unisce e accoglie mood espressivi diversi e che si riempie naturalmente di suggestioni che a tutta prima sembrerebbero estranee alla realtà del jazz. Ed ecco allora che la musica della cantate si riempie di allusioni colte che mimano e definiscono un senso di alterità non riconciliata e non riconciliabile con la semplice tradizione supinamente accettata. Si pensi al caso della trasposizione jazz della bowieana Space oddity, per rendersi compiutamente conto di questa aspirazione costante ad un oltre i limiti imposti dalla grammatica di genere. Il brano, anzi, si presta davvero forse più di altri ad essere eccellente cartina tornasole di un discorso interiore estremamente consapevole. Nel cantare le sorti di uno sguardo alieno che si scontra con la realtà umana in tutte le sue contraddizioni, la canzone non solo rappresenta lo sguardo di una giovane italiana sperduta gershwinianamente nella Grande Mela, ma rappresenta anche il bisogno di un gusto musicale costantemente bisognoso di tradursi in forme e contenuti nuovi e originali. La scelta esecutiva di Valentina Marino sembra, già in questo brano e poi con grande coerenza in tutti i suoi brani, orientata verso il bisogno di trasporre continuamente una maniera verso altro, verso nuove ibridazioni. E così il jazz si riempie gradualmente di inflessioni da chanson francesi, si anima dello spirito del tango, si riempie delle iridescenze della musica brasiliana, ritrova negli echi la leggerezza della migliore musica italiana.
I brani proposti dalla giovane cantante sono così preziosi intarsi di uno stile esecutivo continuamente cangiante, ma che si appoggia quasi al basso continuo di una voce calda e sapientemente modulata, perfettamente adeguata allo spirito dei locali in cui può accompagnarsi ad un giusto grado di gestualità che su disco non si vede, certo, ma si indovina nelle movenze e nelle inflessioni, nonché nel senso quasi teatrale con cui la cantante riesce a speziare (se ci si passa la metafora) le canzoni, con precisa cognizione della loro narratività e con la giusta dose di enfasi nei climax come nei momenti di passaggio.
Dispiace che un talento sicuro come il suo, che sicuramente ha ancora molto da dire e da dare e da affinarsi, debba trovare la sua fortuna all’estero. Certo sulla scelta della cantante poggia molto una certa sordità tutta italiana alle atmosfere del miglior jazz. Ma al di là di considerazioni di carattere culturale, resta la conferma sconfortante che il talento, quando è tale, debba andarsene fuori, mentre da noi ci si abitua tristemente al peggio o, nella migliore delle ipotesi, alla vuota ripetizione delle formule.


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