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VENEZIA ’61 - UN BILANCIO

Pubblicato il 19 settembre 2004 da Giovanni Spagnoletti


VENEZIA '61 - UN BILANCIO

Serata finale, sabato 11 settembre, di premiazione alla restaurata Fenice di Venezia (in mitica diretta Rai2, chi l’ha registrata dovrebbe tenere e rivendere a caro prezzo la vhs) in perfetta, coerente linea con il resto di questa 61 Mostra Internazione d’Arte cinematografica, la prima pensata e organizzata dal duo Croff/Müller. Con uno slogan necessariamente semplificativo si potrebbe dire: pasticcioneria tutta italica + buone intenzioni frustrate. Insomma, come si era intuito sin dall’inizio, un bel ginepraio di contraddizioni questa Biennale Cinema, fatta di un ottimo programma sulla carta e di un’organizzazione catastrofica e autolesionista in un mix equilibristico tra mondanità tutta appiattita sul divismo d’oltreoceano e vocazione cinefila sacrificata però ad ogni alito di vento. Probabilmente per accontentare chiunque, si sono invece scontentati tutti, in un effetto domino che rimanda a casa addetti ai lavori e spettatori con tanti sentimenti confusi e contrastanti (nonché molte incazzature tra cui, quella, evitabilissima, del celebre catalogo Electa con sezioni invertite e pagine mancanti). I padroni del vapore - il ministro Urbani e la Rai, uscita sconfitta per la seconda volta dopo il caso Bellocchio dell’anno scorso - hanno prudentemente taciuto a caldo sulle decisioni della Giuria guidata da John Boorman, mostrando un insolito far play, probabilmente per affilare le armi nel prossimo futuro. L’unico a parlare chiaro è stato il teorico neoconservatore e consigliere d’amministrazione Rai, Marcello Veneziani, a sintetizzare, quale “cervello collettivo” degli attuali detentori del potere, quanto devono aver pensato nei lunghi momenti della premiazione veneziana: “Ho visto che i premi sono stati dati a temi come l’aborto, l’eutanasia e Radio Alice ...non sono entusiasta: la Mostra del Cinema di Venezia è una pura location. A Cannes, invece, viene riconosciuto il cinema francese: non capisco perché qui non accada lo stesso con il cinema italiano”. Lasciando da parte l’ultima rivendicazione aziendal-mercantile, Veneziani però ha intuito in negativo (ma non ci voleva molto!) il nocciolo delle decisioni della giuria (e di una parte consistente della filosofia del Concorso): quello di presentare e premiare un cinema del “reale” - talvolta europeo, magari a low budget - che ci parla dei problemi morali e materiali dell’oggi. Da questo punto di vista, oltre al grande escluso Gianni Amelio, vittima sacrificale e innocente di un ginepraio tutto italiano, tanti altri buoni film avrebbero potuto entrare nel Palmares finale: da Amos Gitai a Wim Wenders, dalla Marziyeh Meshkini alla Svetlana Proskurina, tanto per fare qualche nome. Pur a lodare il senso di indipendenza della Giuria, riconosciuto con grande correttezza dallo stesso Amelio, forse la politica del “raddoppio” dei premi a Vera Drake di Mike Leigh (Leone d’Oro + la Coppa Volpi per la migliore interpretazione femminile alla protagonista Imelda Staunton) e Mar adentro di Alejandro Amenábar (Gran Premio della Giuria + Coppa Volpi per la migliore interpretazione maschile per il grande Javier Bardem) ha mortificato la varietà e la qualità del resto del Concorso - di certo non ha fatto gioco al neodirettore Marco Müller. A riconferma ulteriore del perdurare di un grandissimo e inarrestabile “vento dell’Est”, nessuno, invece, ha avuto niente da ridire sul Premio Speciale per la Regia al coreano Kim Ki-duk di Bin jip (recuperato in “zona Cesarini” come “film sorpresa”) o l’Osella “tecnica” allo Studio Ghibli per il film d’animazione Hauru no ugoku shiro del maestro giapponese Miyazaki Hayao - anzi molti (e a quanto pare c’è stato una accanita discussione anche nella Giuria) avrebbero “promosso” questi due film a riconoscimenti maggiori. Viceversa il Premio “Marcello Mastroianni” a Marco Luisi e Tommaso Ramenghi, i due debuttanti del film di Guido Chiesa, Lavorare con lentezza - Radio Alice 100.6 Mhz sembra essere, in mancanza di gaffe peggiori, più che altro, una classica toppa ai mancati riconoscimenti al cinema italiano - un’altra delle trappole mortali, suggerite dall’alto, su cui era stata forzosamente costruita quest’edizione della Mostra. Davanti agli occhi del mondo la cinematografia di casa nostra, a parte Le chiavi di casa di Amelio, ha fatto una ben magra figura, con alcune, limitate eccezioni nelle sezioni collaterali: Vento di terra (Orizzonti) di Vincenzo Marra, La vita è breve ma la giornata è lunghissima (Cinema digitale) di Lucio Pellegrini e Gianni Zanasi e poco altro. E’ un discorso lungo ed articolato su cui avremo forse modo di ritornare, mentre ci piacerebbe ancora ricordare, oltre ai nomi già citati in precedenza, per lo meno un altro gruppetto di titoli “dimenticati” che hanno animato, a nostro giudizio, il Concorso di Venezia 61: dal francese Rois et Reine (uno dei nostri preferiti!) di Arnaud Desplechin a Kohi jikou di Hou Hsiao-Hsien o ancora Palindromes di Todd Solondz. E comunque sia, questa Biennale non è un mucchio sterile di rovine fumanti come spesso in passato, benché abbia bisogno - lo si ricordava già qualche giorno fa su queste stesse pagine - di un serio e urgente ripensamento complessivo “a partire dall’idea che gli organizzatori hanno del cinema e della visione delle opere” selezionate. A cominciare da un palinsesto demenziale che ha sacrificato due importanti sezioni “parallele”, la Settimana Internazionale della Critica e le neonate “Giornate degli autori” a cui si è concessa visibilità minima (ma allora che ci stavano a fare?). Non ci è dato di sapere se i vertici politici attuali terranno in piedi la nuova direzione (che è sotto prova) o la scaricheranno in quattro e quattr’otto. A Marco Müller, ci auguriamo, che comunque vada concessa la prova d’appello.


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