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VENEZIA 63 - Storie segrete di ibridazioni

Pubblicato il 10 settembre 2006 da Daniele Dottorini


VENEZIA 63 - Storie segrete di ibridazioni

In un Festival come quello di Venezia una delle sezioni storicamente più sacrificate ed invisibile è, da sempre, la retrospettiva. Vetrina dell’attualità, del nuovo, la Mostra attira gli sguardi verso le forme contemporanee del cinema, da qualche anno invece, complice la sponsorizzazione privata di questa sezione (leggi Prada), si sta assistendo ad una inversione di tendenza: la retrospettiva diventa sempre di più la vetrina di un’altra forma di mercato, quello della televisione e dell’home video, sistemi di diffusione dell’immagine in movimento ormai assolutamente inscindibili (se non autonomi) dal circuito delle sale. Ecco allora che, nel corso delle ultime edizioni della Mostra, si è sviluppata una tendenza nuova in ambito festivaliero, quello della “storia segreta”, dello sguardo retrospettivo che, al di là di ogni volontà filologica o di contestualizzazione storica (il che non è necessariamente un male), cerca di attingere dall’enorme serbatoio delle cinematografie più sconosciute, al fine di creare nuovi miti, nuove attrazioni cinematografiche per varie generazioni di cinefili. Ciò che caratterizza allora questa nuova forma di retrospettiva, è l’assoluta libertà della proposta, svincolata dai vecchi criteri di organizzazione di una retrospettiva - la proposta organica, l’esaustività di un tema - a favore dell’approccio libero e disincantato.
Dopo le storie segrete del cinema italiano ed orientale, ecco apparire, nell’edizione 2006 della Mostra, la storia segreta del cinema sovietico. Nulla di nuovo sotto il sole - soprattutto pensando alla retrospettiva di Pesaro 1980, curata da Giovanni Buttafava o, in tempi più recenti, a quella sul cinema sovietico censurato di Locarno 2000 (diretta sempre da Muller) - ma, sicuramente un evento importante, soprattutto per la risposta del pubblico, che riempiva spesso la piccola sala Volpi ad ogni proiezione di un film della sezione.
Film che, durante lo svolgimento della manifestazione, hanno spesso costruito una sorta di controcampo alle tante proposte del festival, innescando un cortocircuito fecondo tra il vecchio e il nuovo, parafrasando Ejzenstejn. Un nome, quello del regista de La corazzata Potëmkin, che aleggia non casualmente tra i titoli presentati. Esempi di musical e di commedie prodotti tra gli anni trenta e gli anni settanta, i film della sezione hanno visto in primo piano due registi dal percorso diverso: Ivan Pyr’ev e Grigorij Aleksandrov. Il primo, formatosi alla scuola del muto, come assistente alla regia di Yuri Taric, rappresenta quella generazione che ha esordito alla regia durante il passaggio agli anni trenta, in cui la forza innovativa dei registi del decennio precedente era fortemente osteggiata dalla dirigenza del partito, alla ricerca di un cinema diverso, capace di captare le mutate esigenze del regime. Vedere o rivedere film come Traktoristy (1939) o Svinarka i Pastuch (1941), commedie sentimentali e musicali dai toni lievi e dai ritmi scanditi con precisione e rigore, dove gli amori vengono mostrati come luoghi e forme del canto, tra paesaggi della steppa o delle montagne del nord, è un modo per fare i conti con una tendenza particolare del cinema sovietico, con una modalità peculiare di mettere in scena i corpi e lo spazio, per giocare con il ritmo e con la musica. Pyr’ev cerca sin dagli esordi registici di reagire a quello che lui stesso chiama il formalismo della natura di Ejzenstejn; in film come Staroe i novoe (Il vecchio e il nuovo), Ejzenstejn mostra una natura completamente culturalizzata, afferma Pyr’ev, immobilizzata dai riferimenti colti del regista. Il cinema degli anni trenta di Pyr’ev sarà allora un cinema in cui la natura diventa lo scenario animato di amori contadini e canti collettivi (spesso animati dai corpi di Maria Ladinina, sua moglie, e Nikolaj Krijuckov, volti dai tratti marcati e popolari, come i nuovi divi del cinema sonoro sovietico), in cui lo slancio amoroso è sempre riflesso di una comunità che lo accoglie e lo giustifica, e in cui il collettivo è sempre pronto a difendere la propria terra contro chi la vuole attaccare. Film in cui il divertimento è sempre accompagnato da propaganda, certo, ma in cui la lotta tra individuo e collettivo, tra vecchio e nuovo, può assumere la forma di un ballo scandito dalle rime inventate al momento dal gruppo di trattoristi in Traktoristy, o di un gioco di rime scanzonate infarcite di doppi sensi tra il giovane ed irruento Kuzma e le donne del villaggio di Svinarka i Pastuch.
Momenti di libertà creativa, di contaminazione tra il registro ideologico e quello formale nonché tra stili di regia differenti, che caratterizzano il cinema di Pyr’ev degli anni trenta, e che fanno pensare paradossalmente a quello che sarà lo sviluppo del suo cinema, e, soprattutto, alle ultime opere del regista russo, tra la fine degli anni cinquanta e la fine del decennio successivo: film quasi sempre d’ispirazione letteraria (da Dickens a Dostoevskij), opere congelate nel loro perfezionismo formale, immerse spesso in un colore surreale e scuro, intrise di una melanconia strana, quasi mortale, lontane insomma, da quella libertà creativa (non poi così diversa, in fondo, dalla libertà di invenzione di Ejzenstejn) che ne aveva caratterizzato il percorso nei decenni precedenti.
Come una sorta di controcampo necessario, la retrospettiva si è sviluppata anche intorno al capostipite della commedia musicale sovietica, Grigorij Aleksandrov, che di Ejzenstejn è stato a lungo assistente, e di cui si sono visti a Venezia alcuni film, dal film d’esordio, che ha aperto la strada al lungo filone del musical-sentimentale, Vesëlye rebjata (1934, Tutto il mondo ride/Ragazzi allegri), e che segna anche la volontà di Aleksanndrov di reinterpretare in modo molto personale il lungo apprendistato fatto con Ejzenstejn, fino a Vesna (1947, Primavera) che proprio a Venezia vinse il premio come miglior soggetto. Anche qui una presenza costante, quella di Liubov Orlova, moglie e musa ispiratrice del cinema barocco ed esplosivo di Alksandrov, che attinge a piene mani (senza mi però plagiare) dalle forme surrealiste del cinema europeo e dallo slapstick americano (da Keaton a Chaplin), riprendendo luoghi - il circo, il teatro, la nave - che, proprio in quegli anni, venivano attraversati dall’impeto devastante del cinema dei fratelli Marx. Se Pyr’ev lavora sulla musicalità collettiva di uomo e natura, Aleksandrov è un grande ibridatore di forme, autore di un cinema folle e poetico (ci sono più invenzioni filmiche in una sequenza di Ragazzi allegri che in tutto il cinema russo contemporaneo presente al Lido quest’anno). Certo, la differenza tra la libertà creativa di Ragazzi allegri o la grandeur della messa in scena di Volga-Volga e il più misurato slancio poetico di Primavera, non può non far riflettere sui tredici anni di storia sovietica che ne marcano la distanza, così come ripensare alla pomposità degli ultimi film biografico-celebrativi del regista (negli anni sessanta e settanta), non può essere visto anche come il segno della fine di un’epoca.
In questa duplice direttiva, che lega insieme libertà creativa e continua invenzione e reinterpretazione di forme, si snoda quindi la piccola retrospettiva veneziana, che offre ancora schegge di follia, con film come Nas milyi doktor (1957) di Sakem Ajmanov e Cerëmuski (1963) di Gerbert Rappaport, o un esempio straordinario del lirismo poetico di uno dei più grandi registi del cinema sovietico, Boris Barnet, di cui si è potuto ammirare ancora una volta il coloratissimo e fordiano Scedroe leto (Un’Estate Prodigiosa). Un percorso affascinante indubbiamente, che, come si diceva all’inizio, marca in modo ancora più esplicito la nuova tendenza della retrospettiva/vetrina veneziana e anche un nuovo modo di riprendere e ripresentare il cinema del passato: un nuovo modello, forse, su cui sarà il caso di riflettere ancora.


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