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Venezia 72 - Gli Shakespeare veneziani di Orson Welles

Pubblicato il 3 settembre 2015 da Anton Giulio Onofri


Venezia 72 - Gli Shakespeare veneziani di Orson Welles

“Ouverture”, più che apertura (anticipata per i residenti in laguna), della 72ma Mostra del Lido: prima che il grande schermo della Sala Darsena si illuminasse dei due titoli “veneziani” di Orson Welles, l’Orchestra Classica di Alessandria ha eseguito dal vivo l’inedita colonna sonora firmata da Angelo Francesco Lavagnino dell’incompiuto The Merchant of Venice, film perduto, poi recuperato e, per quanto possibile, ricostruito a cura di Cinemazero e del FilmMuseum di Monaco di Baviera. La partitura di Lavagnino, che per Welles compose anche le colonne musicali dei suoi altri due film shakespeariani (Otello e Falstaff), ricrea sonorità antichizzate e tardomedievaleggianti, un po’ come in architettura l’eclettismo d’inizio secolo aveva riesumato modi e stilemi degli edifici protorinascimentali, adattandoli al gusto liberty e modernista del periodo. L’ascolto è piacevolissimo: le armonie, la timbrica e l’invenzione melodica, tutto è di una qualità ricercata e ai tempi (verso la fine degli anni ’60) piuttosto frequente nelle colonne cinematografiche, affidate spesso e volentieri, come fu anche in questo caso, alla bacchetta del grandissimo Franco Ferrara, genio della direzione d’orchestra che avrebbe insidiato il primato di Toscanini e Karajan se una misteriosa malattia che lo portava a troppo emozionarsi e cadere svenuto dal podio nel mezzo di un’esecuzione pubblica non gli avesse troncato la carriera, costringendolo a guadagnarsi da vivere incidendo le musiche da film per Fellini, Visconti, Rossellini, De Sica, e tutto il nostro grande cinema dagli anni ’40 agli anni ’60. È proprio dalla sua esecuzione - tra i pochi e sparsi frammenti sonori del film, che ci è arrivato privo dei dialoghi originali - è stata ritrascritta la partitura di Lavagnino, presentata, applauditissima, per la prima volta in pubblico. A seguire, il cinema di Sua Maestà Re Orson: e come ammirando una scultura di Fidia o di Prassitele tronca della testa o delle braccia ce ne arriva integralmente il senso dell’assoluta perfezione che essa ci irradia, anche nel moncherino di questo suo ennesimo sfortunato e travagliato film, Welles, il suo carisma, la sua superlativa qualità di interprete, e l’occhio del suo stesso cinema posato sul proprio Shylock, consapevole di una stazza condannata alla sgradevolezza e all’invadenza, ci inonda di una grazia arcaica, michelangiolesca, beethoveniana, cui da troppo tempo, in quest’era di schermi sempre più ridotti per peso e dimensioni, non siamo più abituati. Infine, la versione originale doppiata in italiano da Gino Cervi (produceva la Scalera Film) e più lunga di circa cinque minuti rispetto all’edizione internazionale del suo magnifico Otello, il cui espressionistico contrasto tra bianco e nero (o tra “i bianchi” e “il Moro”) progressivamente investe e sommerge in un buio funebre il candore dello schermo. Sala stracolma di pubblico fin dall’inizio della serata.


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