X

Su questo sito utilizziamo cookie tecnici e, previo tuo consenso, cookie di profilazione, nostri e di terze parti, per proporti pubblicit‡ in linea con le tue preferenze. Se vuoi saperne di pi˘ o prestare il consenso solo ad alcuni utilizzi clicca qui. Chiudendo questo banner, invece, presti il consenso allíuso di tutti i cookie



Venezia 77 - Nomadland (Leone d’oro)

Pubblicato il 12 settembre 2020 da Francesca Pistocchi

VOTO:

Venezia 77 - Nomadland (Leone d'oro)

Il cinema di Chloé Zhao si immerge nei suburbi del mondo: la giovane regista cinese ce l’aveva già dimostrato con The Rider, ambientato nei retroscena dell’America più desolata e impervia. Tratto dall’omonimo romanzo di Jessica Bruder, Nomadland s’addentra nei meandri di una solitudine perennemente inquieta, analizzando tutti volti di cui si compone l’emarginazione – non soltanto sociale, ma anche fisica e spirituale. Fern (Frances McDormand) è una delle tante vittime del tracollo economico del 2008: perduti, da un giorno all’altro, marito e lavoro, la donna sale sul suo van e s’avventura verso l’ignoto. Ad accompagnare i suoi passi basta qualche nota appena accennata al pianoforte, intervallata dal blues che esce da porte e finestre aperte sul nulla.

Se nei primi fotogrammi il film sembra concentrarsi sull’impossibilità, per chi non possiede più niente, di realizzare il cosiddetto "sogno americano", a mano a mano che si va avanti, ci rendiamo conto di quanto la nostra civiltà s’allontani dall’obbiettivo, scomparendo nel sorriso ironico e vagamente enigmatico della protagonista. La vita nomade di Fern, infatti, non è frutto di un fato avverso, né un banale e scontato sovrapporsi di spiacevoli coincidenze: l’eterno peregrinare di questa instancabile viaggiatrice viene predeterminato da una scelta viscerale, una scelta incomprensibile ai più. Il vagabondaggio in cui si perde la cinepresa, non svela mai le vere ragioni della propria partenza, l’umanità errante ritratta dalla Zhao non possiede origine, né meta finale. Eppure, questa sorta di Odissea che non ferma a nessuna Itaca, è segnata da tappe imprescindibili e da impieghi temporanei svolti nell’attesa di rimettersi al volante – senza, per questo, perdersi nella chimera di una "ricerca della felicità" tutta statunitense. La macchina da presa ondeggia dallo smisuratamente esteso allo smisuratamente piccolo, gli oggetti accatastati nei furgoni lasciano il posto alle steppe brulle che tratteggiano la linea dell’orizzonte.

Della schietta lucidità e della malinconica saggezza che contraddistinguono Fern ci si innamora subito, così come ci si affeziona ai suoi compagni di strada. Pur toccando i quattro angoli del globo, finiamo per incontrare sempre gli stessi sguardi, per immaginare sempre gli stessi luoghi, per riempire sempre gli stessi vuoti. Ognuno porta sulle spalle i propri lutti e le proprie tragedie, ma le tinte di cui si colora questa realtà selvaggia non sono mai troppo scure, al contrario sembrano irradiare una debole luce. Questi "outsider" appaiono molto più inurbati di quanto non ci si potrebbe aspettare, il loro rifiuto verso qualsiasi forma di stabilità collettivamente accettata è del tutto razionale. L’abilità degli sceneggiatori è visibile nella delicatezza con cui tratteggiano i contorni dei personaggi: Nomadland è la storia di un’anima irrequieta per sua stessa natura, non c’è un vero motivo a spingere Fern sempre più lontano. L’unica traccia del suo passato è la vecchia casa aziendale nel Nevada, dal cui giardino s’accedeva al deserto: la sola dimora accettabile è dunque quella dello spazio e del tempo privi di mediazioni e di infrastrutture (tanto sociali quanto psicologiche). Nonostante il carattere gentile e cordiale, la donna non si espone mai oltre una certa soglia e sembra respingere ogni legame che possa definirsi fisso: gli impegni a lungo termine non fanno per lei, la sola eccezione consiste nel marito ormai defunto. Fern è dunque sospesa al centro di un doppio paradosso, perché la solitudine sembra davvero spaventare chiunque tranne lei: dai parenti rimasti a casa agli amici conosciuti sul ciglio della via di non ritorno, la protagonista sembra la sola in grado di nascondersi indipendentemente dal luogo e dalle circostanze.

A guidare il suo cammino è l’enorme e materno vuoto lasciato da altri prima di lei, orme che vengono ricalcate senza nemmeno esserne consapevoli. I viaggiatori non fanno che scambiarsi pietre per ricordarsi l’uno dell’altro, terra e memoria sono termini simili. Ma al di là della filosofia nomade che permea l’intero film, a colpire lo spettatore è la sarcastica distanza che Fern interpone fra sé e l’universo circostante: ben lungi dal darci lezioni di vita, Chloé Zhao lascia parlare l’onesta sincerità di questa donna che, in fondo, non fa nulla di speciale se non seguire la sua natura, muovendosi all’interno di un percorso tracciato apposta per lei.


CAST & CREDITS

(Nomadland); Regia: Chloé Zhao; sceneggiatura: Chloé Zhao; fotografia: Joshua James Richards; montaggio: Chloé Zhao; interpreti: Frances McDormand (Fern), David Strathairn, Linda May, Swankie; produzione: Highwayman Films (Chloé Zhao), Hear/Say Productions (Frances McDormand), Cor Cordium Production (Peter Spears), Mollye Asher, Dan Janvey; origine: USA 2019; durata: 108’


Enregistrer au format PDF