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VOD: Save me

Pubblicato il 8 marzo 2011 da Alessandro Izzi


VOD: Save me

In America si inventano di tutto. Anche le case di cura per guarire le persone dal terribile morbo dell’omosessualità.
Chiaramente le cliniche attrezzate allo scopo sono di matrice ultracattolica sicché in ogni stanza c’è un crocifisso e nel refettorio si dice sempre una preghiera prima di cominciare a mangiare.
Potrebbe sembrarvi troppo, ma è già tanto che, nel considerarla una malattia dell’anima, l’omosessualità non sia considerata anche strettamente infettiva.
I medici preposti alla cura (che, se non si svolge a suon di Ave Maria e Pater noster, poco ci manca), però, si portano attaccati all’anima le mascherine e i guanti di lattice tipici della professione per la quale si fa ancora il giuramento di Ippocrate a Zeus ed Atena. I loro pazienti li guardano con amore, ma poi si lavano le mani due volte prima di mangiare dal piatto comune.
Il meccanismo stesso della cura poggia sulla convinzione che l’omosessualità sia, in fondo, una debolezza dell’anima che può essere sconfitta se si insegna a queste pavide pecorelle il coraggio di seguire l’unico cammino possibile che è quello della croce. Ed in fondo i gay e le lesbiche (ma di queste non si fa menzione nel film) dovrebbero dirsi contenti della loro condizione perché se Dio li ha voluti così è perché voleva metterli alla prova non una, ma due volte.
Ad aiutarli sulla via di questo doppio calvario niente farmaci, ma una dieta priva di caffeina e tabacco, tanta attività all’aria aperta, lezioni di postura su come tenere le gambe incrociate ed un ballo, una volta l’anno, con esponenti del gentil sesso che invitano alle danze sotto lo sguardo benedicente di un parroco.
Gayle, la caporeparto di questa piccola comunità, è convinta della bontà della sua azione, ma si porta dietro un lutto giammai elaborato. Suo figlio a sedici anni le aveva detto di essere omosessuale e lei in tutta risposta lo aveva cacciato di casa, condannandolo di lì a cinque mesi a morte per overdose. Poiché l’equazione del perbenismo prevede che lo spinello stia all’eroina come il pederasta sta alle droghe pesanti, la soluzione ponziopilatesca è ad un passo. Gayle, infatti, non si sente responsabile della morte del figlio per averlo rifiutato in quanto gay, ma per non averlo curato. Epperò il suo essere madre che è istinto preverbale che precede le convinzioni sulle quali ha costruita una vita intera le instilla dubbi mai espressi. La saldezza delle sue convinzioni è costantemente erosa dal fatto che nei suoi pazienti cerca sempre un’identificazione più o meno potente con il figlio cui non ha saputo tendere le mani. E poiché la cura è pur sempre un ennesimo gesto di rifiuto, il suo lutto, fondato com’è su una menzogna che ella ripete a se stessa, non può essere davvero elaborato. E’ Gayle il personaggio più dolente (se si potesse fare una graduatoria del dolore) di questo piccolo girone infernale. Carceriere chiuso nella sua stessa prigione, il personaggio guarda gli altri con la precisa volontà di lenire il loro dolore, il loro sentirsi rifiutati da padri che li maledicono sui letti di morte e da madri che li guardano con sospetto ed occhi umidi di pianto. Ma il dolore che vorrebbe consolare è prima di tutto il suo e per farlo non vede altra soluzione che condurre sull’altro un’operazione di rimozione senza anestesia e con un bisturi poco affilato.
"Save me" è quello che le dicono i pazienti una volta entrati nella struttura, ma è anche quello che lei stessa chiede loro perché lo strazio che prova dentro è troppo grande.
Storia di un medico che non cura se stesso, il film è anche storia di un amore che sboccia comunque, anche se dentro, nell’anima di chi quell’amore vorrebbe provarlo, è tutto deserto e senza acqua.
Per questo, ovunque ci si volga, non si trova altro che melodramma. E non nell’accezione migliore del termine. In America, soprattutto quando si veleggia dalle parti del Sundance, purtroppo il melodramma sta molto negli arpeggi di piano che accompagnano i primi piani, nel "vorrei, ma non posso" di ognuno ed, infine, in un contrasto tra il mondo e l’individuo che urta sempre con quell’idea di sogno americano che gli autori, volenti e nolenti, si trovano attaccati al DNA. Sicché il film, che è anche coraggioso nell’affrontare un argomento scottante in un paese in cui, da certe parti, si insegna a scuola il creazionismo, scivola su una regia un po’ troppo priva di ambizioni. Manca al film uno sguardo denso, anche se è bello il modo in cui si riesce ad evitare il manicheismo del tutto bianco o tutto nero. Il problema sta semmai nel fatto che i personaggi di contorno rimangono mero sfondo e la possibile denuncia si chiude tutta in un semplice, sia pur toccante, dramma a tre.


(Save me); Regia: Robert Cary; sceneggiatura: Robert Desiderio, Craig Chester, Alan Hines; fotografia: Rodney Taylor; montaggio: Phillip J. Bartell; musica: Jeff Cardoni; interpreti: Chad Allen, David Petruzzi, Arron Shiver, Colin Jones, Stephen Lang, Judith Light, William Dennis Hurley, Robert Gant; produzione: Chad Allen; durata: 95’

Il film è visibile in streaming su www.QueerFrame.tv.


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