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Werner Herzog: Apocalisse sul deserto

Pubblicato il 28 marzo 2003 da Alessandro Izzi


Werner Herzog: Apocalisse sul deserto

“Un pianeta del nostro sistema solare” annuncia una voce in apertura di uno dei più bei documentari di Herzog mentre le immagini spalancano dinnanzi all’occhio attonito del telespettatore visioni da inferno dantesco. Quel pianeta, apprendiamo fin troppo in fretta, è la Terra; l’occhio che lo guarda, smarrito tra paesaggi da incubo è quello di un alieno che si sforza di capire l’assurda realtà di un mondo le cui azioni hanno lo stesso senso che può avere, per noi, il disordinato correre di formiche in cima ad un formicaio. La prima creatura incontrata in questo viaggio agli inferi, quella che si sforza di comunicare con gli alieni nella loro missione documentaria, è un pompiere intento allo spegnimento di un incendio terribile: quello dei pozzi di petrolio del Kwait dati alle fiamme durante le fasi più cruente della prima guerra del golfo. Herzog pare ossessionato, in questo capolavoro di finezza, dalla visione dall’alto. Sembra quasi che il regista sia giunto alla consapevolezza che basta guardare le cose da un’altezza quasi infinita, da una fredda distanza, perché esse rivelino la loro inanità disperata, la loro mancanza di un senso immanente ed incontrovertibile. E così, sempre dall’alto, con la macchina da presa che, in un’inquadratura destinata alla celebrità, si ribalta su se stessa trasformando in cielo una terra devastata, scorrono sotto il nostro occhio attonito immagini d’incedi colossali, di costruzioni sventrate da esplosioni, di campi disseminati di macerie. Dall’alto ogni cosa, privata del suo dramma, entra nel mito, nella poesia pura della visione dove anche l’orrore si ammanta di una sua tragica bellezza. In questo modo, i laghi di petrolio, sorvolati da uno sguardo che sembra incapace di aderire al mondo, diventano infidi specchi di cielo, le volute di fumo soffocante sembrano nuvole temporalesche di un paesaggista inglese dell’ottocento e anche i tavoli su cui fanno bella mostra orrendi strumenti di tortura, scoprono nell’ordine chirurgico in cui sono disposti cavi elettrici e coltellacci arrugginiti, una loro forma di malsana gentilezza. Anche se la capitale appena intravista nelle prime inquadrature, quella città statica che attende, in una sospensione d’incanto, l’avvento delle bombe sembra mimare, nella voluta geometria delle strade che si intersecano e dei palazzi che svettano verso il cielo, un suo proprio significato, l’arrivo del fuoco certifica, una volta per tutte, la perdita di quello stesso significato. La guerra accende tutto nella confusione e la morbidezza dei movimenti di macchina che sorvolano questo mondo violentato, distanziandoci da quel dolore, ce lo fanno sentire, paradossalmente più vicino perché ci è impossibile fuggire inorriditi in cerca della nostra pace borghese che da sempre cerca di cibarsi di quel dolore lontano dagli occhi e, quindi, dal cuore. Le immagini più potenti sono quelle non viste. Quelle raccontate, come la scena del dolore della madre che ha visto morire entrambi i figli o come quella dolente del bambino che piange lacrime di petrolio e dice, alla fine, dopo che il suo capo è stato schiacciato dal tacco di un soldato, di non volere mai più imparare a parlare. La sconfitta della Parola di fronte all’assurdità della Guerra è raccontata con tratti potenti mentre la musica, con lo splendido Stabat Mater di Arvo Part lega il dolore delle madri a quello della Madre di Dio ai piedi della croce. Sono questi i soli momenti in cui Herzog concede all’umanità di irrompere nella calibrata messa in immagine dell’orrore, il resto è pura poesia delle cose che oggettivano una violenza senza senso. Gran parte del documentario è dedicato allo spegnimento dei pozzi di petrolio, finché una scena di violento simbolismo ci racconta di come la vita dell’uomo sia diventata impensabile senza un incendio da spegnere. Ecco, allora, delle torce riaccendere i pozzi di petrolio nel pieno trionfo della follia umana. Finale torvamente profetico, questo, dal momento che le torce della Guerra hanno riacceso, proprio ieri, le fiamme di quello stesso conflitto raccontato da Herzog che sembrava spento come i pozzi di petrolio. ”Sembra quasi che l’uomo trovi insopportabile la vita senza il fuoco” dice l’alieno visitatore alla fine del documentario, congedandosi da quella strana bestia che reca il nome di uomo. E a noi non resta che innalzare al cielo la preghiera che chiude con una dissolvenza le immagini che si stanno ripetendo: “Sono così stanco di sospirare, o Signore, fa che scenda la notte”.

(Lektionen in Finsternis); regia: Werner Herzog; sceneggiatura: Werner Herzog; fotografia: Paul Beriff; aerial camera: Simon Werry; montaggio: Rainer Standke; musica: Edward Grieg, Gustav Mahler, Arvo Part, Sergej Prokofiev, Franz Schubert, Giuseppe Verdi, Richard Wagner; produzione: Paul Beriff e Werner Herzog per Cine-International Munchen; anno di produzione: 1992

messa in onda italiana: Ottobre 1996; rete: RAI 3

[marzo 2003]


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