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Werner Herzog: Gesualdo

Pubblicato il 28 marzo 2003 da Alessandro Izzi


Werner Herzog: Gesualdo

Carlo Gesualdo, principe di Venosa, fu uno dei più grandi compositori del nostro Rinascimento. Ma fu anche uomo di eccessi, di genio e sregolatezza, una figura il cui valore artistico e umano esula dalla nostra comprensione e dal nostro giudizio. Apprezzato compositore al suo tempo (con quell’indulgenza generale che gli derivava parte dal titolo nobiliare parte dalla fama di dilettante che ovunque lo precedeva) fu, poi, considerato autore barbaro ed incapace per tutto il Settecento e soltanto con l’Ottocento iniziò una larvale ed incerta opera di rivalutazione. Revisione critica, questa, dipesa più dall’aura leggendaria e romantica che si era andata ad incrostare intorno alla sua vicenda (assassino della moglie e del di lei amante) che su una vera comprensione del valore musicale delle sue composizioni. Soltanto con l’inizio del Novecento, con la musica espressionista e dodecafonica e attraverso l’incredibile rivalutazione strawinskiana si è potuto capire il valore effettivo della sua opera: quello di straordinaria anticipazione. Inutile dire che, di fronte a questo materiale incandescente, Herzog organizza, da par suo, un documentario sui generis in cui brilla costantemente una notevole vocazione affabulatoria. Conscio dell’impossibilità, ormai, di separare del tutto il mito dalla verità storica, il regista li persegue entrambi divertendosi spesso a confondere le acque in un gioco che ha il sapore di una trama gialla in cui varie piste si confondono, si sovrappongono, senza che, però, alla fine si riesca a pervenire ad una conclusione normalizzante. E in questo senso il giallo non è tanto quello del delitto la cui fine, anzi è nota, ma quello dello storico - o dello studioso - che, come un detective, è costretto a cercare di far parlare il passato sulla base delle poche prove indiziali che sono riuscite ad arrivare fino a noi. E queste prove sono, per forze di cose, già molto, troppo inquinate. Sotto questa luce vanno inquadrate le sequenze dell’intervista alla reincarnazione di Maria D’Avalos (le presta il volto la nostra Milva) o quelle girate in un fantomatico ospedale per la cura di varie forme di malattie mentali. Una sorta di gioco, che il regista instaura con il suo spettatore, una denuncia quasi postmoderna sull’impossibilità di far parlare realmente la storia attraverso le sue manifestazioni. Ma si tratta di un gioco molto serio perché ci mostra, o vuole mostrarci, il paradosso secondo il quale, alle volte, è necessario ricorrere alla finzione per pervenire ad una realtà credibile. Un po’ come il frate Guglielmo de Il nome della rosa di Eco che scopre la verità sulle morti del monastero in cui soggiorna seguendo la pista sbagliata. Di qui il pervasivo uso di una macchina da presa in perenne movimento, nell’inesausta necessità di attraversare luoghi, di accarezzare oggetti non nell’utopia di farli in qualche modo parlare (perché su ciascuno di quelli oggetti andrà necessariamente a sovrapporsi una ulteriore interpretazione, mai una riconoscibile realtà di fatto), ma per sancirne una volta di più lo straordinario, remoto silenzio. Inutile dire a questo punto come Herzog si sia profondamente immedesimato nella carismatica figura che è stato capace di evocare con la sua macchina da presa. Gesualdo sembra, anzi, essere una sorta di sintesi e specchio dei suoi personaggi più riusciti. Nell’immagine tutta romantica del compositore che, consumato l’atroce delitto, disbosca tutto da solo un’intera vallata non possiamo non sentire qualche eco della follia sublime di Fitzcarraldo. La scena del manicomio ricorda da vicino Anche i nani hanno cominciato da piccoli, e il percorso giallo che non approda a nulla ricalca la struttura straordinaria di Kaspar Hauser. Ma più di ogni cosa colpisce, in questo documentario, una fortissima inesausta esigenza di racconto. Una sorta di vera e propria vorace fame di finzione.

(Gesualdo); regia: Werner Herzog; fotografia: Peter Zeitlinger; montaggio: Rainer Standke; produzione: Lucki Stipetic per Werner Herzog Filmproduktion.

[marzo 2003]


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